‘Ndrangheta, si pente il boss Nicola Femia. Aveva interessi anche a San Marino.

L’uomo è stato al centro del processo Black Monkey sulle in ltrazioni ma ose in Emilia Il boss Nicola FemiaRomagna per cui è stato condannato a 26 anni e 10 mesi.

Nel 2015 la glia Guendalina e il suo compagno sono stati condannati a 4 anni e mezzo sul Titano per aver riciclato i soldi sporchi della famiglia.

C’è un nuovo pentito nelle ‘ndrangheta calabrese ed è un pezzo grosso, uno in grado di far tremare mezza Italia per i segreti che potrebbe svelare e per i rapporti che ha avuto nel corso degli anni con i “colletti bianchi”.

Si tratta di Nicola Rocco Femia, esponente di spicco della ‘ndrangheta imprenditoriale che negli anni è riuscito a tessere rapporti di ogni tipo anche al Nord e soprattutto in Emilia Romagna. La decisione del boss risale a febbraio ma è emersa soltanto venerdì nel corso del processo “Anjie” su rapporti tra narcotrafficanti calabresi e ma a albanese.

Femia è stato condannato, insieme ai figli Nicola e Guendalina e al genero, a 26 anni e 10 mesi di carcere nell’ambito del processo scaturito dall’operazione “Black Monkey” condotta dalla Dda di Bologna che ha svelato una serie di retroscena sul business dei videopoker. Il suo nome è tristemente famoso anche per le minacce di morte perpetrate ai danni del giornalista Giovanni Tizian.

In una telefonata intercettata nel 2011, il boss parlava di “sparare in bocca al cronista autore di alcune inchieste sui presunti affari della ‘ndrangheta in Emilia-Romagna”.

La decisione di parlare è arrivata all’indomani della sentenza di Cassazione che ha reso definitiva una condanna a suo carico per droga a 23 anni di reclusione.

Ma Nicola Femia aveva interessi anche a San Marino.

Lo ha appurato il tribunale sammarinese che nel settembre 2015 ha condannato a 4 anni e 6 mesi di prigionia la figlia Guendalina e il compagno Giannalberto Campagna per aver riciclato oltre 1,3 milioni di euro transitati attraverso un conto corrente sammarinese.

Quei soldi, secondo il giudice Gilberto Felici, erano riconducibili all’attività di traffico di armi e stupefacenti del boss.

Ma, tornando al suo pentimento, per capire quanto sia genuina la sua collaborazione sarà necessario attendere ancora. Gli inquirenti infatti non hanno intenzione di prendere per oro colato quanto affermato dal padrino, ne’ si accontenteranno di dichiarazioni “già note” o semplicemente autoaccusatorie. Insomma prima che il boss possa essere considerato credibile ci vorrà tempo.

Davide Giardi, La Tribuna