Nella roccaforte operaia che ha spinto la Brexit: «Che abbiamo combinato?»

Brexit text with British and Eu flags illustration

A Sunderland, nel cuore dell’Inghilterra delle fabbriche, dove il Leave ha preso il 61 per cento e dove ora c’è chi si pente del suo voto.

«It’s all about memories». Mentre lo dice sembra quasi accarezzare la copertina azzurra di un libro che racconta l’epoca d’oro della Barbary Coast, gli anni Cinquanta e Sessanta, quando i quasi due chilometri di spiaggia cittadina, il tratto più lungo d’Inghilterra, erano luci e musica, attori famosi e scatti di fotografi. «Lo sa che salivano fin qui a fare festa anche da Londra?». Forse è davvero solo una questione di ricordi. Janet Gurdy racconta che suo padre e ognuno dei suoi sette fratelli nacquero in otto diversi pub gestiti dalla famiglia in quella zona. Lei ha sempre amato i libri. Faceva la bibliotecaria, ma poi l’amministrazione comunale ha tagliato i fondi.
Adesso lavora da Waterstone, dentro «The Bridges», l’enorme centro commerciale piazzato in mezzo alla città, al quale si accede direttamente dalla stazione. È sabato pomeriggio, e sembra che siano tutti lì dentro, da un negozio all’altro. Fuori non c’è un’anima viva. Qualche ubriaco è sdraiato sulle panchine. I ragazzi più giovani fumano davanti alle acque limacciose e piene di immondizia del laghetto di Mowbray Park. Sunderland sembra un enorme sobborgo. Appena fuori da «The Bridges» è come essere ancora dentro, perché senza soluzione di continuità comincia una serie di Lidl, Tesco, Poundland, il grande magazzino dove si compra tutto con una sterlina, massimo due. L’unico monumento che si staglia all’orizzonte è la struttura metallica dello Stadium of light, dove gioca la squadra locale che milita in Premier league.
«Non ci abbiamo pensato, la verità è questa», racconta Jamie Harton, un pel di carota venticinquenne che lavora come apprendista a tempo determinato in una delle tante fabbriche dell’indotto automobilistico. «Avevamo in testa loro, i Londoners. Vengono quassù solo quando hanno bisogno di noi e del nostro voto. Parlano di noi solo quando c’è un delitto. Allora sai che c’è?». Per un attimo gli torna la rabbia, e al dito medio agitato dal basso verso l’alto ci aggiunge anche l’indice, rischiando di far cadere il sacchetto con dentro alcune bottiglie di birra. Tennent’s rossa, la più forte. «Me lo ha detto pure mia madre: se anche questa volta non ti assumono è solo colpa tua». Il nome di Sunderland, la città dei cantieri navali dismessi, capitale del Nord-Est con un grande passato dietro alle spalle, la roccaforte operaia di un laburismo sempre più stinto, è risuonato in tutto il mondo. Era passata da poco la mezzanotte, quando è arrivato l’annuncio, dal campo indoor del tennis centre di Silksworth, trasformato per l’occasione in comitato elettorale. Il Leave era al 61 per cento, il Remain al 39. Le previsioni più pessimistiche davano al massimo sei punti percentuali di scarto.
Subito dopo è venuto giù tutto,a cominciare dalla sterlina. Janet c’era, alla festa durata tutta la notte. «Ero contenta per dimostrazione d’orgoglio, ma sinceramente non pensavo che il Leave potesse vincere». Jamie invece mostra l’sms che gli ha mandato Martin Guthry, un collega anziano. Ore 3,42 del mattino. «C… cosa abbiamo fatto?». È successo che la città intera ha voluto rivendicare la sua indipendenza da un mondo che non gli appartiene e considera come al causa del suo declino. Bridget Philipson, deputata del Labour, non nomina una volta l’Europa. I Mackem, questo il nomignolo della gente di Sunderland, si sono presi l’unica vittoria possibile contro i Londoners, termine che ormai ingloba anche l’alta finanza, i capitani d’industria. «Due dita alzate, e pazienza se ci facciamo del male. Ma insieme all’irrazionalità c’era anche del calcolo, in fondo non pensavano che potesse davvero finire così».

L’enorme stabilimento della Nissan fu costruito nel 1986 al posto dell’aeroporto della Royal Air Force. Venne inaugurato da Margaret Thatcher, che per l’occasione si spinse nell’odiato Nord del Paese, terra di laburisti e minatori, i suoi nemici interni. Oggi ci lavorano 1.200 persone, settemila sono impiegate nelle fabbriche che producono gli accessori interni, altre 32.000 lavorano nell’indotto. Ogni anno vengono prodotte 550mila auto, il 70 per cento viene venduto in Paesi dell’Unione Europea. A febbraio, quando l’amministratore delegato di Nissan Europa disse che il Remain avrebbe avuto più senso in termini di costi, commercio e posti di lavoro, sembrava quasi un’ovvietà. Diane James l’europarlamentare dell’Ukip che ha fatto una campagna feroce per il Leave sostiene che quell’appello è stato il punto di svolta. «Voleva fare un favore a Cameron ma tu non vieni a dirci cosa dobbiamo fare, capito? Spero che non si vendichino. Per ora non se ne vanno. Ma non abbiamo certezze».
Se c’era una città che aveva tutto da perdere dal Leave, questa era Sunderland. E la paura dell’altro non basta a spiegare un voto contro i propri interessi. I tassisti hanno battuto la città all’insegna del «Riprendiamoci il Paese», ma il censimento del 2011 dice che solo il 3,6 dei residenti è nato all’estero, contro una media nazionale dell’11,5%. Senza contare questa città e quest’area dal 2007 a oggi hanno ricevuto dall’Unione Europea rispettivamente 23 e 130 milioni di sterline. L’insegnante Linda Moragh dice che alla base di tutto c’è la nostalgia di un mondo più semplice. «Sappiamo che è una battaglia persa, perché non abbiamo i mezzi per sopravvivere come comunità. È tutto troppo grande e globalizzato, e sappiamo che verremo travolti. Ma almeno ci siamo ribellati». Dice di aver votato Leave come omaggio alla memoria del padre, aviatore della Raf. Aveva ragione la bibliofila Janet, tutto o quasi gira intorno ai ricordi. All’evocazione di una Inghilterra idealizzata che non c’è più, e comunque vada non tornerà.

Corriere.it