“La contestata natura artificiosa delle condotte poste in essere a vario titolo agli imputati non è affatto scontata, nè evidente. (…). L’intera operazione, come tale, si è realizzata alla luce del sole”. Così il giudice per l’udienza preliminare Simone Luerti motiva la sentenza di proscioglimento con la formula “perché il fatto non sussiste” per gli stilisti siciliani Domenico Dolce e Stefano Gabbana. Erano accusati di dichiarazione dei redditi infedele (articolo 4 del decreto 74/2000) e concorso in truffa ai danni dello Stato in relazione alla presunta esterovestizione della capogruppo D&G. La sentenza, che ha rigettato la richiesta di rinvio a giudizio per i due stilisti e altri cinque imputati, risale allo scorso primo aprile. Ora nelle 29 pagine di motivazioni appena depositate il gup spiega perchá ha respinto la richiesta di esercitare l’azione penale del pm Laura Pedio, pur sottolineando che “nel processo in esame (…) il fatto storico è compiutamente accertato e sostanzialmente non controverso tra le parti, trattandosi soprattutto di materia altamente tecnica e prevalentemente documentale”.
In sostanza, scrive Luerti, diversa è la propria interpretazione della realtà dei fatti dal punto di vista del diritto penale rispetto alle conclusioni tratte dal pm, anche se il giudice rileva che “altri profili, soprattutto in ambito strettamente tributario, appaiono suscettibili di letture e interpretazioni alternative”. Pedio contestava a Dolce e Gaddana una maxievasione fiscale su un imponibile di circa un miliardo (416,8 milioni ciascuno), esercitata attraverso il trasferimento formale nel 2004 di una loro società in un paradiso fiscale, il Lussemburgo, con il solo scopo di pagare meno tasse in Italia, dove però l’azienda continuava a suo avviso a operare regolarmente. L’operazione ß stata realizzata attraverso la cessione dei marchi della maison, che garantiscono royalties per milioni e milioni di euro, alla “Gado sarl” (acronimo di Gabbana e Dolce), controllata dalla Dolce & Gabbana Luxembourg per 360 milioni. Una stima secondo l’accusa eccessivamente al ribasso e, dato che i brand della maison fondata nel 1985 era stato stimato in 1.193.712.000 euro, l’operazione avrebbe consentito un risparmio notevole sulle imposte da pagare per il profitto realizzato. Ora però Luerti sostiene che “nel caso in esame, nulla dice – e nulla dirà mai – che Domenico Dolce e Stefano Gabbana hanno effettivamente percepito dall’acquirente Gado sarl (e poi occultato) un corrispettivo superiore a quello dichiarato di 360 milioni di euro in violazione dell’articolo 4 del decreto legislativo 74/2000. Non sono dimostrate, ma soprattutto nemmeno affermate, la tenuta irregolare delle scritture contabili, ná meno che mai l’esistenza di una contabilità ‘in nero’ (…). Al contrario, tutto lascia deporre per l’effettività di quel prezzo”. Non solo, secondo il gup, “la contestata natura artificiosa delle condotte poste in essere a vario titolo agli imputati non è affatto scontata, ná evidente. Oltre alla cessione dei marchi reale e non fittizia, di cui si è già ampiamente parlato, si osserva che l’intera operazione, come tale, si è realizzata alla luce del sole, dagli incarichi ai professionisti agli atti costitutivi delle società, fino alle loro denominazioni”. Piuttosto, secondo Luerti, “le condotte contestate integrano palesemente una delle molteplici forme che assume l’elusione fiscale, il cui rilievo penale tributario ß tutto da verificare”.