Niente assegno a moglie che si licenzia per farsi mantenere

(ANSA) – ROMA, 07 APR – Esaminando la “tempistica del suo
licenziamento” avvenuto “in concomitanza con la separazione” dal
marito, la Cassazione è giunta alla conclusione che la signora
Aurora M. si era apposta fatta mettere alla porta dall’azienda
di suo padre, della quale lei stessa era socia e dipendente, al
solo fine di “sostenere” davanti al giudice “la richiesta di
assegno a carico del consorte”, peraltro “dopo una vita
coniugale breve, senza figli, e non connotata da alcuna
particolare contribuzione al menage familiare”. Per questo gli ‘ermellini’ – verdetto 9550 della Prima sezione civile – hanno
confermato che, in casi del genere, la perdita del lavoro non
può essere addebitate alle difficoltà del mercato ma si deve
considerare come una “scelta” personale, e dunque non c’è alcun
diritto a chiedere l’assegno di mantenimento in caso di crisi
coniugale.
    A questa conclusione era arrivata anche la Corte di Appello
di Lecce che, nel 2021, aveva osservato come Aurora M. non
avesse fornito alcuna prova del suo “contributo alla conduzione
familiare e alla formazione del patrimonio comune” dal momento
che “neppure si è occupata della cura della casa avendo a
disposizione personale di servizio” e che quando il marito per
lavoro venne promosso e trasferito a Messina, a dirigere
l’Arsenale, lei si era rifiutata di seguirlo ma rivendicava lo
stesso di avergli fornito il sostegno “morale” per arrivare a
quella posizione che, dunque, era dovuta a lei.
    Nel ricorso in Cassazione, la signora ha ribadito il suo
diritto a ricevere l’assegno di mantenimento sottolineando che
il successo professionale del marito è l’esempio del fatto “che
dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna”, e che
essendo lei una cinquantenne diversamente dal marito aveva meno
possibilità di “trovare nuovi partner” e rifarsi una vita.
    Questi argomenti sono stati bocciati dalla Suprema Corte –
presidente del collegio Giulia Iofrida, relatrice Rita Russo –
che li ha trovati “generici e giuridicamente irrilevanti” in
quanto si tratta di “dissertazioni focalizzate su luoghi comuni
e stereotipi” (ANSA).
   


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