Tiene tra le dita una medaglietta da militare. “Questa si indossa in battaglia. La toglierò solo quando tutto sarà finito”. Franco Marchetto, ex comandante della stazione dei carabinieri di Garlasco, quel 13 agosto 2007 era lì, il primo a intervenire sul luogo del delitto. Oggi, in pensione, segue da vicino le nuove indagini sul caso Chiara Poggi, e in un’intervista concessa a Repubblica non ha dubbi: “La Procura ha molto in mano. E non solo vuole chiudere il caso, ma scrivere la parola giusta”.
Marchetto è convinto che finora sia stato individuato un colpevole, ma non il colpevole. E quando emergerà il movente, dice, “colpirà due famiglie”. Una frase amara, che lascia intendere verità taciute, piste ignorate, e ferite ancora aperte.
Negli anni successivi al delitto, il maresciallo è finito al centro di varie vicende giudiziarie: tre condanne — per favoreggiamento della prostituzione, peculato e falsa testimonianza. Vicende che lui considera il frutto di una lunga ritorsione: “Mi hanno fatto pagare il fatto che non ho mai smesso di farmi domande su questo caso”.
Tra le memorie che riemergono con forza, quella del 13 agosto, quando vide per la prima volta Alberto Stasi. “Gli chiesi della ragazza, e lui parlò del volto pallido. Gli mostrai la foto del corpo e gli dissi: è questa? Avrei voluto incalzarlo di più, ma fu subito isolato con i genitori. Un errore, da dilettanti”.
Nel corso dell’intervista a Repubblica, Marchetto ripercorre anche i dettagli legati alla famosa bicicletta nera — quella che alcuni testimoni avrebbero visto vicino alla casa di Chiara quella mattina — e accusa i colleghi di Vigevano di non averla sequestrata. “L’ho vista in officina, era diversa da quella descritta. Ma nessuno l’ha voluta approfondire”.
Parla anche delle gemelle Cappa, più volte sfiorate da sospetti mai approfonditi. “C’erano testimoni che mettevano in discussione gli spostamenti della madre. E Muschitta — uno che conosceva bene il paese — descrisse Stefania in bici con troppi particolari per esserseli inventati. Ma il capitano Cassese, che guidava le indagini, disse: hanno l’alibi. Nessuno, però, si prese la briga di verificarlo davvero”.
Su Andrea Sempio, oggi indagato, Marchetto confessa che non l’aveva mai sentito nominare all’epoca. “Erano tutti ragazzini”, dice, e sembra anche riferirsi a come fu condotta inizialmente l’inchiesta: in modo affrettato, concentrata su un unico nome, senza guardare altrove.
Oggi gestisce un bar nel centro di Garlasco con le figlie, ma resta connesso alla vicenda. Ha messo in contatto il programma Le Iene con uno dei nuovi testimoni, e racconta di un paese ancora diviso tra innocentisti e colpevolisti. “Ma sempre più persone, negli anni, mi dicevano di guardare altrove. Verso altri nomi”.
Il cuore di tutto resta però una domanda: perché? “Il movente è la chiave — ripete — e quando verrà fuori, cambierà tutto. Perché farà male a più di una famiglia”. Parole pesanti, cariche di rammarico e consapevolezza.
Per Marchetto, questo caso non è mai finito. “È la mia ultima indagine, anche se non sono più in servizio. Per me è una guerra tra giusto e sbagliato. E ho bisogno che finisca, per tirare il fiato. Per chiudere davvero”.