NESSUNO avrebbe mai immaginato che la ‘rivolta contro il pizzo’ sarebbe partita proprio da Bagheria, dove ‘zu Binnu’, il boss Bernardo Provenzano, passò buona parte della sua latitanza. Proprio da qui, 36 imprenditori e commercianti hanno deciso di dire basta al racket e di denunciare gli uomini d’onore. Il primo a rompere l’omertà è stato un imprenditore edile che aveva iniziato a pagare negli anni Novanta, ai tempi della lira e ha continuato anche quando è arrivato il nuovo conio. «Da tre milioni di lire a tremila euro al mese – ha raccontato agli inquirenti –. Un’estorsione che mi ha consumato tanto da costringermi a cedere tutte le mie attività. Sono stato obbligato per 10 anni a versare soldi alla famiglia del reggente del mandamento mentre era in carcere, oltre a dover pagare percentuali sugli appalti aggiudicati. Ero diventato la loro cassa privata».
I carabinieri del Comando Provinciale di Palermo hanno così dato esecuzione a 22 provvedimenti restrittivi nei confronti di capi e gregari del mandamento di Bagheria, responsabili, a vario titolo, di associazione per delinquere di tipo mafioso, estorsione, sequestro di persona, danneggiamento a seguito di incendio. Le indagini, avviate nel maggio 2013, all’indomani dell’operazione ‘Argo’, sono confluite nell’operazione ‘Reset 1’ (che nel giugno 2014 portò all’arresto di 31 affiliati a Cosa Nostra) e ora in ‘Reset 2’ che ha colpito il sistema estorsivo.
E proprio in uno dei paesi più indebitati d’Italia, oggi amministrato da un sindaco cinquestelle, è partita la rivolta contro il pizzo grazie a una dettagliata ricostruzione di una cinquantina di estorsioni, una vera e propria ‘tassa’ con richieste costanti a cui nessuno poteva sottrarsi. Una gabella che non si interrompeva neppure quando i boss finivano in galera perché veniva ‘ereditata’ e riscossa dai subentranti. «Era una sorta di staffetta», ha commentato il procuratore aggiunto di Palermo, Leonardo Agueci.
Nessuno si salvava, dai supermercati ai centri scommesse. Un sistema criminale che arrivava al punto di chiedere il pizzo a un privato aggiudicatario di un appartamento all’asta giudiziaria. «Il caso dell’imprenditore edile taglieggiato per decenni è emblematico. Ha dovuto addirittura firmare un atto preliminare di vendita in attesa che i boss trovassero un prestanome per l’affare», ha sottolineato il colonnello Salvatore Altavilla, comandante del reparto operativo.
Personaggio chiave è Pietro Giuseppe Flamia, soprannominato ‘il porco’, 57enne sodale di Provenzano. Flamia (attualmente detenuto) nel 2013, nonostante fosse in regime di semilibertà, gestiva il racket. La riscossione, poi, costituiva uno strumento anche per il mantenimento delle famiglie dei carcerati. Secondo alcune intercettazioni, una parte del denaro veniva «girato» alle famiglie: «Duemila euro glieli diamo alla moglie di Nino», consigliava uno degli estorsori. Il quale ricordava che a Natale, i commercianti di Bagheria non potevano sottrarsi al pagamento: «E per Pasqua c’è la stessa cosa».
Resto del Carlino