
La “sfida francese” è una costante che ha accompagnato la politica estera italiana negli ultimi anni. Una sfida che porta con sé elementi di vera e propria competizione, soprattutto a causa del protagonismo del capitalismo transalpino nei confronti dell’industria e la finanza italiana, ma anche margini per una cooperazione che Parigi spesso comprende, volgendo a suo favore joint-ventures e accordi economici comuni, e che può espandersi anche in ambiti riguardanti l’Europa e gli spazi geopolitici di comune interesse.
A lungo le classi dirigenti italiane, nell’ultimo trentennio, hanno interpretato in maniera timida questa dicotomia. Dando a lungo l’impressione di essere quasi più pronte a assecondare Parigi sul primo fronte piuttosto che cogliere le opportunità del secondo. Mettendo in un cassetto e dimenticando la lezione dell’allora presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi e del suo ministro dell’Industria Paolo Savona, che nel 1993 ipotizzarono l’idea di prevenire la “calata” transalpina in Italia giocando d’anticipo sulle alleanze industriali, economiche e finanziarie e costruendole in forma paritaria. Il direttore generale del Tesoro, allora, si chiamava Mario Draghi. E dai risvolti politici e delle fasi più problematiche dell’era del passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica e delle privatizzazioni industriali ha sicuramente tratto lezioni istruttive, anche sul fronte dei rapporti con la Francia.
Draghi è un leader di statura europea che non ha bisogno di ostentare un europeismo posticcio e guarda alla Francia e al suo presidente Emmanuel Macron senza alcun timore reverenziale. Nelle sue dichiarazioni programmatiche alla Camera, Draghi ha indicato proprio la Francia, assieme alla Germania, tra i Paesi con cui occorrerà “meglio strutturare e rafforzare il rapporto strategico” negli anni a venire. E in tal senso l’obiettivo dovrà essere chiaramente rivolto a costruire una relazione che abbia la possibilità di creare vantaggi bidirezionali e non risulti eccessivamente sbilanciata a favore della Francia. Nella consapevolezza che Parigi è un partner con un peso politico, strategico e geopolitico superiore, l’Italia non deve comunque avere timori reverenziali.
Secondo quanto scritto dall’analista Leonardo Palma su Formiche, una strategia percorribile per Draghi potrebbe essere quella del completamento del Trattato del Quirinale, un accordo che consenta di normare a livello strategico e con un framework complessivo i rapporti bilaterali tra i due Paesi, sulla falsariga dell’intesa che dal 1963 unisce la Francia e la Germania Federale, culminata nel 2019 nel Trattato di Aquisgrana. Secondo Palma “una entente cordiale tra i due Paesi può rappresentare la base da cui prefigurare un successivo accordo con la Germania per la nascita di una intesa (Berlino-Parigi-Roma) da porre alla testa di un processo di rilancio del progetto europeo”, in cui Roma e Parigi sono interessate a rendere strutturali scelte politiche come la rottura dei vincoli di bilancio, le politiche espansive della Bce, la messa all’angolo dei falchi rigoristi della Nuova lega anseatica, a costruire una vera e propria proiezione mediterranea dell’Unione, a non lasciare a una Germania sempre più egemone la golden share sulle future azioni politiche del Vecchio Continente.
L’Italia non ha “alleati” privilegiati in senso stretto nell’Unione, non è riuscita a federare se non su battaglie di comune convergenza un polo mediterraneo e non ha ancora una via per rifondare il progetto europeo. In un certo senso un accordo comune con la Francia può consentire a Roma di essere ammessa a quei tavoli informali in cui si decidono le rotte future del Vecchio Continente, aprire alla possibilità che i grandi progetti definiti dal governo di Parigi come franco-allemande (come Gaia-X) acquisiscano postura europea, contribuire a scrivere le regole del gioco.
L’ipotesi che Roma venisse tagliata fuori dalle rotte future della sovranità digitale europea è stata fugata dalla presenza di numerose aziende (da Eni a Leonardo) in Gaia-X – nella corsa al cloud sovrano europeo – mentre l’esuberanza di Macron sulla Difesa comune europea è stata mitigata dal realismo di chi – come il ministro Lorenzo Guerini – ha chiamato alla necessità di non considerarla alternativa all’asse con gli Usa. Poi, su diverse questioni tattiche (pensiamo alla partita energetica nel Levante e alla sfida turca), tra Italia e Francia si è creata un’implicita sinergia che permette di saggiare le capacità del lavoro di squadra.
Questo vorrebbe dire appiattire l’Italia sulle posizioni francesi? Assolutamente no. Palma ci ricorda che numerosi sono i fattori di rivalità tra Roma e Parigi: “dalle politiche migratorie alla crisi libica, da quelle industriali (programma F-35, Stx-Fincantieri) alle scalate ostili (Vivendi, Mediaset, Telecom), fino alla penetrazione finanziaria in settori strategici dell’economia (Ubi Banca, Mediobanca, Generali)”.
I temi economici hanno aperto a un attento scrutinio dell’attivismo francese in Italia da parte del Copasir e a un’iniziativa congiunta da parte del centrodestra sulle attività transalpine nel Paese che hanno di recente assunto rilevanza con le manovre francesi per saldare definitivamente il controllo su Borsa Italiana dopo il passaggio ad Euronext. Non si può accusare la Francia di ipocrisia, in tal senso: molto spesso il protagonismo francese ai nostri danni è stato legato più alla scelta italiana di non giocare a viso aperto e puntellare i propri interessi che da supposti doppi giochi francesi.
E il governo Draghi, nel suo obiettivo di “meglio strutturare” i rapporti potrebbe avere proprio nel trattato del Quirinale uno strumento favorevole. In modo da creare una camera di compensazione per le questioni che dividono Italia e Francia, fissare bene le linee rosse degli interessi comuni su cui è necessario confrontarsi e i terreni in cui appare comprensibile un certo grado di rivalità e competizione. Lasciando all’autopropagazione le relazioni bilaterali, il peso dei rapporti di forza favorevoli a Parigi finirebbe per schiacciarci. Riprendendo a fare seriamente politica, l’Italia può ritagliarsi i suoi spazi e valorizzare il rapporto con il proprio vicino d’Oltralpe. Senza sudditanze, senza timori reverenziali e senza il rischio di vere e proprie guerre politiche a tutto campo: l’interesse nazionale richiede compromessi
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