A poche ore dalle parole del Mef siamo ancora sbigottiti. Ma cosa sta accadendo? La verità è che ci troviamo nel bel mezzo di una competizione fiscale internazionale, dove le giurisdizioni ad alta fiscalità, vedi ad esempio l’Italia, da tempo sono tese a rafforzare le regole antielusive, al fine di contrastare ogni possibile scappatoia che, anche potenziale, possa erodere il gettito erariale del proprio Stato. Colpire ogni possibile espediente che il proprio contribuente potrebbe adottare per sfuggire dai pesanti obblighi tributari che sono a suo carico.
Sono infatti tanti i paesi, e tra questi senza dubbio l’Italia, che hanno concentrato i loro sforzi nell’approntare provvedimenti che si configurano in regole antielusive sulle transazioni internazionali. Una delle strategie più battuta è perseguire le giurisdizioni che non consentono un adeguato scambio di informazioni ai fini fiscali.
La crisi finanziaria internazionale che ha colpito il mondo intero con tutta sincerità non ha per nulla sorpreso gli addetti ai lavori, e meno ancora chi detiene il potere politico ed economico del nostro pianeta. Ecco perché ben consapevoli di cosa si andava scoperchiando come contromossa si sono subito riuniti nel 2009 organizzando il vertice del G20 di Londra. E cosa si sono detti? Queste parole: Signori, qui tutti siamo grandi e vaccinati, ognuno è consapevole di che grandezze si sta ragionando, per opportunismo abbiamo tutti chiuso gli occhi di fronte all’espandersi, al propagarsi e al primeggiare della finanza in ogni piega dell’economia e della vita quotidiana dei nostri cittadini, siamo arrivati al punto che, come tutti sapevamo, anche se non conoscevamo il timing, tutto ciò non regge più.
Il tenore di vita, l’economia, i sistemi finanziari, da tempo stavano vivendo al di sopra delle proprie possibilità e potenzialità sotto l’effetto del narcotico (finanza disinvolta) somministrato da persone consapevoli dei danni che si andavano a produrre, consapevoli che prima o poi tutto ciò sarebbe divenuto insostenibile. Tutto questo andazzo evidentemente ha avuto la “copertura” politica dei leader degli Stati più influenti del pianeta.
Quindi raggiunto il punto critico della situazione andava individuata per forza una soluzione immediata a tampone. Su cosa si ricadde? Sui cosiddetti paradisi fiscali. “Sulle colonie”, quelle che fino ad un momento prima si faceva finta di ignorare e venivano lasciate fare. L’input era che da quelle andava estratta tutta la ricchezza possibile. Il superministro dell’Economia italiano all’epoca se ne uscì con queste parole: ora però stiamo attenti perché dopo questi “non abbiamo più rendite interne o esterne, patrimoni accumulati o colonie, dalle quali continuare a estrarre ricchezza”. Più eloquente di così!
I governi pertanto si sono fortemente indirizzati a intraprendere azioni contro i “paradisi fiscali” e a prevedere sanzioni per proteggere le proprie finanze pubbliche. Ogni Stato ha “attaccato” il territorio-paradiso entro cui sapeva benissimo si celassero capitali dei propri cittadini. L’Italia, in particolare, che detiene il terzo debito pubblico più grande al mondo e, come dice il prof. Tremonti, non è di certo la terza economia del globo, poteva prendere altre strade? Ovviamente no. Quindi focus principalmente in direzione di Svizzera, Lussemburgo, Montecarlo, Liechtenstein e San Marino.
A dar man forte alle linee di azione dei governi si era unita da subito l’Ocse che seguiva e attenzionava (come tuttora segue e attenziona) i progressi compiuti dai singoli paesi nell’implementazione di un effettivo scambio di informazioni in materia fiscale. Ma ancor più manteneva aperto un canale privilegiato da cui ascoltare ogni evidenza che gli giungeva dai più grandi Stati aderenti, che manifestavano particolari situazioni con giurisdizioni che non sembravano cedere a patti, delle spine nel fianco. Quindi l’Ocse, in particolare, agiva anche da tramite e dietro mandato.
E siamo al provvedimento voluto dal tributarista Giulio Tremonti, uno che anche per la professione privata che esercitava dovrebbe avere bene impressa e perfetta cognizione dei fattori nscosti e profondi addentro alla materia. Il cosiddetto “scudo fiscale”; una misura adottata come “in una economia di guerra”, spinti avendo elementi in mano che facevano prevedere il peggio per la Repubblica italiana. Debito oltre il 120%, crisi di liquidità, crescita economica di entità che era meglio non pubblicizzarla, ecc..
Simmetricamente il fiscalista del nord Italia emanava e rendeva stringenti tutte le normative che riguardavano le relazioni tra gli operatori economici italiani con quelli stabiliti in territori a fiscalità privilegiata. Non ultimo, difficile anche da credere ma vero, un governo liberale che contraddice in pieno la presunzione di innocenza dei cittadini: ovvero adotta la presunzione di residenza fiscale in Italia per le persone fisiche residenti all’estero. Ma tutto questo lo si sacrifica di fronte ai pericoli che incombono sullo Stato italiano.
Tremonti su che tipo di approccio ha indirizzato il legislatore italiano? Le norme che via via sono state adottate sono state quasi tutte del tipo jurisdictional, cioè basato sulla localizzazione del soggetto estero in un paese considerato paradiso fiscale o, al contrario, in un paese “affidabile”; l’appartenenza all’una o all’altra categoria è definita da elenchi tassativi (“black list” o “white list”) redatti dal legislatore.
Questo metodo è noto che comporta forti rigidità. Vengono redatte liste che portano con se il rilievo del grado di trasparenza dell’ordinamento tributario estero, di collaborazione nello scambio di informazioni a fini fiscali e il livello di tassazione del paese estero. I criteri della trasparenza e della collaborazione sono volti a evitare sia fenomeni di esterovestizione (opacità informativa sulla proprietà di beni che generano redditi di pertinenza di soggetti residenti in Italia) sia complessità nell’individuazione delle imposte effettivamente pagate all’estero.
Le disposizioni antielusive e antievasive internazionali svolgono una fondamentale funzione deterrente nei confronti dell’utilizzo improprio della normativa tributaria. In ogni caso è giusto ricordare che l’autonomia dell’Italia, come di ogni altro paese aderente all’Ue, nella definizione delle norme antielusive, è comunque limitata; tali disposizioni, oltre a non poter violare le libertà fondamentali del Trattato sull’Unione Europea non devono, coerentemente con gli orientamenti comunitari, essere eccessivamente onerose per i contribuenti in termini di compliance.
Torniamo allo scudo fiscale. Proviamo a pensare che massa di liquidità sia rientrata in Italia; cento miliardi di euro. Qualcosa come 200.000 miliardi di vecchie lire! Altri paesi sono dovuti andare a bussare alle porte di Unione europea, Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, Cina, ecc., con tutte le relative e correlate conseguenze negative. L’Italia si è messa al riparo con questa mossa da seri pericoli che incombevano sul suo capo.
D’accordo non tutto il “tesoro” rientrato nello stivale era sottoforma di denaro liquido ma una grossa percentuale certamente si. In un’epoca di grande sete di liquidità internazionale e nazionale, l’Italia è riuscita a non far crollare il suo sistema bancario e finanziario, e di conseguenza anche economico, con questo ingentissimo flusso di capitali. Insomma poco si è badato alla natura, alla reale titolarità, molto si è spinto per averli a “casa”, nei forzieri italici.
E oltre a dare “ossigeno” al sistema finanziario italiano, in prospettiva, quale era l’altra preoccupazione che ha spinto il governo italiano (ma più che altro l’uomo che ha in mano i conti, Tremonti) a varare lo scudo fiscale? Un non trascurabile motivo è da ricercarsi nel voler portare fieno in cascina per non trovarsi spogli e impreparati quando in futuro si dovevano per forza emettere sul mercato titoli di debito pubblico (Bot e Cct) e la domanda poteva essere scarsa o insufficiente. Sostanzialmente si voleva garantire adeguata copertura. Quindi ad occhio si trattava di un’azione studiata e concordata con gli attori principali del sistema finanziario italiano. Io faccio in modo che arrivino risorse nel sistema, ma poi tu mi devi garantire che ti presenterai alle aste…. Più o meno saranno state queste le parole intercorse.
Non è vero? Può darsi, ma oggi scopriamo che una grossissima fetta del debito pubblico italiano è in mano a tre istituti bancari italiani. La cosa è normale? Mica tanto. Proviamo a pensare ad un declassamento del rating dell’Italia, che cosa accadrebbe? Io penso un effetto domino che al primo punto, tra le cause, avrebbe l’irresponsabilità di chi ha investito senza diversificare, senza osservare prudenza.
E veniamo ai rapporti tra San Marino e il prof. Tremonti. Sappiamo che quest’uomo ha grande considerazione e peso all’interno della maggioranza e della compagine di governo italiana. Su di lui ruota la stabilità e la continuità dell’esecutivo, così come i rapporti tra i due alleati di governo, PdL e Lega Nord. Il soggetto, che molto probabilmente conosce bene le teorie di uno storico politico statunitense estremamente abile nelle mediazioni come Henry Kissinger, sa alla perfezione che la variabile tempo può solo avere effetti deleteri sulla controparte, più debole, San Marino. Questa posizione di forza lo porta ad atteggiarsi con fermi diktat, ignorando gli appelli, fare spallucce ai reiterati avvertimenti dei pericoli che si potrebbero presentare se la situazione dovesse proseguire in siffatto modo. Dal suo osservatorio il passare del tempo può portare solo danni al Titano. Quindi il “granitico Giulio” sa perfettamente che ha in mano una ghiotta opportunità, quella di “disarmare” almeno per un lungo periodo la Repubblica di San Marino. Sembra non se la voglia lasciare sfuggire. A che costi? Non gli importa neppure pensarlo, non si sofferma. Ha ben altre cose molto più importanti e impegnative che lo vedono preso a livello politico e intellettuale.
Insomma cosa pensa il tributarista milanese? Più o meno questo: o San Marino mangia questa minestra o passerà per la finestra. “I want my money” (voglio i miei soldi) l’ha già dichiarato pubblicamente, con San Marino ci aggiunge dell’altro, “forever”, per sempre.
Siamo all’oggi. Il governo di San Marino ha adottato provvedimenti su provvedimenti, rincorso emergenze su emergenze, affrontato con coraggio innumerevoli resistenze interne che spalleggiavano per mantenere lo status quo. Si sarebbe aspettato segnali, qualche parola di riconoscimento, qualche disponibilità. In più di due anni invece non si è registrato o visto alcun sostegno o incitamento al lavoro fatto dal governo sammarinese. Si percepisce solo un uomo che lo si vede nei tg, in televisione, ma mai di persona, disponibile a sedersi a ragionare. Per lui parlano i provvedimenti adottati dall’Italia che vessano gli operatori economici sammarinesi, gli “stimolati” cartellini gialli dell’Ocse o del Fmi.
Il valtellinese Giulio non si scomoda neppure quando gli viene ricordata l’antica amicizia tra Italia e San Marino. Per lui l’amicizia è si un principio del Vangelo ma non la considera un sentimento di obbligatorietà e comunque ha valore se viene a configurarsi nella reciprocità.
In ultimo, viene spontanea la domanda, come se ne esce? Ebbene sono convintissimo ed ottimista e credo che la Repubblica di San Marino abbia tutte le potenzialità e carte in regola per venirne fuori. Seguiteci e nei prossimi appuntamenti vi spiego secondo me su quali strade si deve indirizzare per superare questo momento molto difficile.
Un saluto e un buon fine settimana a tutti i lettori di Giornale.ms.
11 marzo 2011
Mario Fabbri