
Daniele Franco è da pochi giorni il nuovo titolare del Ministero dell’Economia e delle Finanze e il suo passaggio nel campo del governo Draghi ha aperto un processo importante di ridefinizione degli equilibri interni alla Banca d’Italia. Istituzione che il neo-premier, da ex governatore, conosce a menadito e in cui l’economista già passato per il ruolo di Ragioniere generale dello Stato ricopriva dall’1 gennaio 2020 la carica di Direttore generale.
Il direttore generale di Palazzo Koch è di fatto il numero due dell’istituto, sostituisce il governatore in caso di impossibilità a svolgere il proprio ruolo, assieme a questi ed ai suoi tre vice compone il Direttorio, organo collegiale competente per l’assunzione dei provvedimenti aventi rilevanza esterna relativi all’esercizio delle funzioni pubbliche attribuite dalla legge alla Banca d’Italia. Funge inoltre da figura di coordinamento tra la struttura apicale della Banca e i suoi organi burocratico-amministrativi interni, dagli uffici studi alle sezioni territoriali.
Il governo sarà chiamato in tempi brevi, dunque, a scegliere un sostituto di Franco in grado di entrare pienamente in azione nelle sue funzioni. E per la scelta sono in lizza due dei tre vice di Franco: Piero Cipollone e Luigi Federico Signorini.
Il primo è in Via Nazionale dal 1993, e apparirebbe la figura preferita da Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia e, come ha ricordato Il Tempo, è stato “uno dei consiglieri più fidati e decisivi del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte”, mentre Signorini, nota StartMag, è nell’istituto dal 1982, “è membro del direttorio e vicedirettore generale dal 2013, ed è stato confermato nel 2019”, dopo una lunga querelle che coinvolse il primo governo Conte, contrario alla sua riconferma, e che fu sbloccata dalla chiamata del predecessore di Franco, Fabio Panetta, nel board Bce, che aprì il valzer di nomine per l’affidamento del ruolo di dg a Franco.
Franco, Panetta, Visco, Cipollone e Signorini sono figure della burocrazia e grand commis uniti da un comune filo rosso. Un filo rosso che rispondono a una figura ben precisa, a un nome e ad un cognome: Mario Draghi. Non si può capire perché Mario Draghi sia divenuto il punto di riferimento di numerosi interessi di potere nazionali ed internazionali se non si comprende quella che è stata, nel corso della sua carriera da direttore generale del Tesoro, da governatore della Banca d’Italia e da massima autorità della Bce, la sua maggiore qualità organizzativa e politica, ben ricordata di recente dall’analista Alessandro Aresu: la capacità di nominare nelle strutture da lui dirette figure di propria fiducia e di comprovata competenza con cui costruire solidi rapporti di collaborazione professionali legati da una comune cultura organizzativa e amministrativa.
Draghi, ricorda Il Sole 24 Ore, “da Governatore aveva promosso a capo della ricerca economica” l’attuale ministro Franco, garantendogli una “posizione strategica anche nei rapporti con il mondo della politica (è il funzionario generale che va spesso in audizione in Parlamento)”; Signorini e Cipollone sono ascesi agli alti vertici amministrativi di Palazzo Koch durante l’era Draghi e il primo fu suo assistente all’Università di Firenze negli Anni Ottanta. Visco ha preso le redini dell’istituto dopo il passaggio di Draghi in Bce nel 2011, e nei quattro anni precedenti aveva ricoperto la carica di vicedirettore generale, prendendo parte alle riunioni del Direttorio; Panetta, invece, è stimato da Draghi per la sua attenzione alle questioni monetarie europee e tra i due si è costruito un feeling e un rapporto professionale consolidato negli anni più recenti, tanto che Draghi ha cercato anche il suo parere durante le consultazioni. “Draghiano” è anche un’altra figura apicale della finanza europea, Ii vice presidente della Bei, Dario Scannapieco, che nel 1997 fu chiamato direttamente da Draghi per far parte del consiglio degli esteri mentre era ad Harvard.
Il nuovo direttore generale, che si porrà in testa per la successione a Visco quando, tra due anni, il suo mandato scadrà, sarà dunque un “draghiano”, e nelle istituzioni e nel potere romano il nuovo premier potrà dunque rafforzare la sua zolla personale di influenza. A testimonianza del fatto che definire Draghi una semplice figura “tecnica” è riduttivo e fuorviante. Draghi negli anni ha agito a fianco del potere politico, in sua supplenza e come suo complemento, mai come sua alternativa: dal Ministero del Tesoro e dalla Banca d’Italia ha ramificato una struttura di rapporti multilaterali e di incroci professionali che ha rafforzato il ruolo di queste due istituzioni come “palestra” della classe dirigente nazionale. Non a caso governatori della Banca d’Italia sono stati Guido Carli e Carlo Azeglio Ciampi, le figure di riferimento per l’avvio della carriera professionale di Draghi nello Stato ai tempi dell’ultimo governo Andreotti, che nel 1991 lo nominò direttore generale del Tesoro.
Un potere consolidato, dunque, che in Draghi ha trovato un interlocutore ideale quando Sergio Mattarella lo ha chiamato alla guida della presidenza del Consiglio alla caduta del governo Conte II. E che nel governo ha trovato subito posto con la chiamata di Franco e con la costituzione di un super-tavolo di ministri indipendenti chiamati a gestire i dossier del Recovery Fund. Prenotando, con la prima nomina alla Banca d’Italia che il consiglio dei ministri dovrà fare, la sua perpetrazione assicurandosi il controllo della successione a Via Nazionale. Un potere che, come quello solido e duraturo del Quirinale, si contrappone sempre di più alla caducità e alla difficoltà di elaborazione di lungo periodo delle classi dirigenti partitiche. Incapaci di fare vere operazioni di consolidamento politico come quella del partito degli uomini di Draghi.
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