
I recenti rapporti mandati a Washington dall’ambasciatore statunitense a Roma Lewis Eisenberg per riassumere i suoi anni di mandato, letti da L’Espresso che ne ha pubblicato degli estratti, hanno indicato in due ministri del Partito Democratico, il titolare della Difesa Lorenzo Guerini e il collega agli Affari Europei Enzo Amendola, i referenti dell’ortodossia atlantista e della continuità dei rapporti politici Usa-Italia che godono della massima stima oltre Atlantico.
Se Amendola è una new entry, Guerini è da tempo il ministro di fiducia per eccellenza degli Stati Uniti. E in continuità da Donald Trump a Joe Biden sarà proprio l’ex sindaco di Lodi, più del premier Giuseppe Conte o del suo segretario Nicola Zingaretti, l’uomo dotato delle più alte credenziali politiche.
“L’ex numero due di Matteo Renzi piace per la sua capacità di mediazione, per la sua poca ricerca di visibilità e per la sua concretezza”, fa notare Italia Oggi. “Insomma, una garanzia per chi ha come stella polare l’atlantismo e la fedeltà atlantica”. Guerini viene dalla palestra della direzione del Copasir nella fase iniziale della legislatura, ai tempi del governo gialloverde. Il comitato di Palazzo San Macuto che vigila sui servizi segreti e sulle minacce al sistema Paese è diventato negli ultimi anni una decisiva centrale di elaborazione delle politiche funzionali all’interesse nazionale, nonchè un’istituzione fortemente apprezzata negli ambienti atlantici per la sua predisposizione a vagliare strategicamente gli investimenti cinesi in Italia.
Guerini si è, in primo luogo, fatto fautore di un’attenta relazione con l’apparato politico-militare del Pentagono e con le strutture Nato, in larga parte non esposto alla caducità dei cicli politici. Dalle posizioni sul 5G, sul quale ha ridimensionato le aspettative cinesi affermando che per l’Italia “non si tratta di decidere in quale campo stare, ma di essere coerenti con la nostra storia”, a quelle sul dossier afghano, in cui ha affermato la continuità della missione italiana indipendentemente dalle ultime decisioni di Trump, Guerini parla poco ma lo fa solo per indicare una via politica precisa. E questo agli Usa è estremamente gradito, come è gradito il fatto che remando contro l’europeismo radicale del Pd la Difesa guidata dall’ex democristiano abbia di fatto depotenziato la partecipazione di Roma alla difesa comune europea, i cui programmi hanno ricevuto finanziamenti per soli 62 milioni di euro in sei anni.
Al contrario, la fornitura di armi e mezzi con Guerini è concentrata in gran parte su aziende americane, sono valorizzate le alleanze di impronta atlantica (Fincantieri negli Usa, il programma Tempest, la partecipazione dell’aerospazio agli Accordi di Artemide) nel contesto di un budget in crescita: nel 2020 le spese italiane per la Difesa saliranno complessivamente a oltre 22,8 miliardi di euro, 1,43% del PIl (+0,25% rispetto al 2019) e per il 2021-2022 sono pronti ad essere stanziati 2,5 miliardi aggiuntivi. L’impegno dell’esercito nella crisi del coronavirus, partita proprio dai territori di casa di Guerini, appare inoltre quasi un dualismo rispetto alla strategia preferita dal premier Conte, favorevole alla centralizzazione sulla Protezione Civile e sugli apparati ad hoc creati con la guida di Domenico Arcuri.
“Guerini”, prosegue Italia Oggi, “si muove a fari spenti, non si perde una cerimonia ufficiale, nessuna polemica né a destra né a sinistra, buoni rapporti con tutti, anche con la Confindustria di Carlo Bonomi”. In molti iniziano a darlo come uno dei nomi più papabili per la successione al Quirinale a Sergio Mattarella, con cui le somiglianze politiche non mancano: di scuola democristiana, provenienti entrambi dalle retrovie, entrambi hanno avuto la loro consacrazione politica alla guida della Difesa (che Mattarella ebbe in gestione dal 1999 al 2001) e in questo contesto coltivato un rapporto privilegiato con gli Stati Uniti. Guerini è stato un nome gradito a Mattarella per la sua posizione attuale proprio per le sue visioni sull’Alleanza Atlantica e la solidarietà con gli Usa. Lo sconfitto più grande della sua ascesa potrebbe essere il premier Giuseppe Conte. A lungo, fin dall’era gialloverde, intento a costruire una rete di alleanze personali per colmare la sua debolezza politica, ma il cui buon rapporto con Donald Trump potrebbe addirittura ribaltarsi in un malus quando la nuova amministrazione si insedierà a Washington.
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