SI FA PRESTO a dire ‘accoglienza’. Papa Francesco lo ha ribadito anche nel suo ultimo appello sul tema dell’immigrazione: «ogni parrocchia – ha detto il Santo Padre – deve farsi carico di una famiglia di migranti». Già, ma i religiosi italiani sono davvero pronti ad aprire le loro porte, a ospitare il popolo dei disperati che bussa insistentemente al loro uscio?
Ci siamo finti due profughi siriani in fuga dalla guerra, Amal e Amina, marito e moglie, e abbiamo provato a chiedere asilo nelle parrocchie di Rimini. La nostra storia è la stessa dei tanti che ogni giorno sfidano la sorte sui barconi della morte alla deriva nel Mediterraneo, il nostro cammino, come il loro, è lastricato di lacrime e di stenti. Siamo scappati da una nazione devastata dal conflitto, abbiamo attraversato frontiere e posti di blocco, mossi dalla segreta speranza di un futuro migliore. Ora siamo qui, in questo paese sconosciuto, la nostra terra promessa. Con noi abbiamo solo uno zainetto con dentro dei vestiti. In tasca neanche un soldo. Non parliamo una parola d’italiano, solo un inglese stentato. Abbiamo fame. Cerchiamo un tetto per dormire, una minestra calda con la quale rifocillarci. Tutte le nostre speranze sono affidate a un cartello con la scritta: «profughi da Siria, aiuto, accoglienza». Con questo vogliamo presentarci ai parroci riminesi, come dei novelli Giuseppe e Maria dei giorni nostri.
IL NOSTRO viaggio comincia dal centro storico. Ci mettiamo in cammino – con i nostri sandali logori, i vestiti sformati e cenciosi, uno chador in testa – e la prima sensazione che avvertiamo, passeggiando in mezzo alla folla, è quella di essere ‘osservati’. Centinaia di occhiate, a metà tra il compassionevole e l’ostile, ci si incollanno addosso. Altri, passandoci accanto, preferiscono distogliere lo sguardo o abbassarlo, silenziosi. Strano ritrovarsi dall’altra parte della barricata, immedesimarsi, per qualche ora, nei panni del ‘diverso’.
Arriviamo alla chiesa di San Giuliano Martire, nel cuore dell’antico borgo. Bussiamo alla porta della canonica. Dal primo piano si affaccia una donna. «Cosa volete?». «Help, aiuto» le diciamo, facendole capire che siamo immigrati. Lei ci guarda interdetta per un secondo. «Mi spiace, il parrocco non c’è» e così dicendo richiude di scatto la finestra. Niente da fare. Due parrocchiano ci sfilano accanto, ma per loro siamo come invisibili.
Riproviamo altrove. Alla chiesa di San Girolamo, in via Principe Amedeo, il copione è più o meno lo stesso. Suoniamo al campanello e dopo un istante ci risponde, attraverso il citofono, la voce metallica del parroco. Il tono è sospettoso. Ci liquida nel giro di pochi secondi. «Help? No help qui. Dovete andare alla Caritas».
PROSSIMA TAPPA: la chiesa della Riconciliazione, in via della Fiera. In canonica ci accoglie una ragazza che lavora come volontaria. All’inizio, vedendo il nostro cartello, non sa bene cosa fare, poi esce dalla porta e ci viene incontro con un sorriso. Ci chiede se parliamo italiano, poi si sforza di comunicare con noi in inglese, mettendocela tutta per farsi capire. «Il parroco non c’è – dice –. Tornerà tra un’ora o un’ora e mezzo. Se intanto volete entrare, potete accomodarvi. Vedremo quello che si può fare, anche se non credo che sia autorizzato ad ospitarvi».
NOI, però, decidiamo di riprendere il cammino, e questa volta ci dirigiamo alla chiesa di Cristo Re, in via delle Officine. Nel campetto alcuni ragazzini stanno giocando a pallone. Ci fissano perplessi, mentre saliamo le scale della canonica. All’ingresso un uomo ci sbarra la strada. «Cercate qualcuno?» Restiamo in silenzio ed esibiamo il nostro cartello. «Un attimo solo, provo a chiedere al parroco». Entra in un ufficio, confabula per alcuni minuti con qualcuno (probabilmente il parroco), poi torna da noi. «Mi dispiace tanto, qui non c’è posto. Non possiamo prendervi». e allora dove possiamo andare? «Non lo so, ma non qui: spiacenti, non possiamo proprio».
Poco lontano, in via Rovetta, c’è la chiesa Regina Pacis. Bussiamo alla porta della canonica, sperando di avere fortuna. Nessuno viene ad aprirci, così entriamo. Nel corridoio incontriamo il sacerdote. «Da quanto siete in italia?» ci chiede. Sembra interessato alla nostra storia, gli occhi tradiscono la sua commozione. Ma di accoglierci, anche in questo caso, non se ne parla proprio. «E come faccio? Dove vi metto? No, mi dispiace, mi dispiace davvero, ma non posso. Avete provato alla Caritas?» Prende un foglietto e scribacchia sopra un indirizzo. E’ quello della caritas di via Madonna della Scala. «Andate qui. Forse potranno aiutarvi. E’ vicino alla stazione dei treni. Train, capito?» Si congeda, ma si capisce dal suo sguardo che gli piange il cuore a farci andare via in quel modo. E così noi riprendiamo la strada. Tristi, mano nella mano. Per noi la meta finale sarà la redazione e la nostra vera vita. Ma gli Amal e Amina veri, quelli che invece sono davvero fuggiti dal loro paese?
Fonte: RESTO DEL CARLINO