“Sono Laraba, ho 22 anni e vengo dalla Nigeria. La mia è una famiglia molto numerosa, come tante nel nostro paese; vivo con i miei genitori e altri cinque tra fratelli e sorelle in un piccolo paese. Una usanza comune nei nostri villaggi, all’età di cinque anni venni già promessa sposa ad un uomo adulto di un villaggio vicino, Nasir”.
Comincia così il racconto di Laraba, nome di fantasia, arrivata a Rimini meno di un anno fa insieme a sua figlia Jamilah, nata sul barcone durante la traversata del Mediterraneo. La sua storia l’ha raccontata nelle varie fasi per la richiesta di accoglienza che l’ha portata oggi a essere ospite di una struttura riminese.
“Pochi anni dopo dovetti scappare insieme alla mia famiglia dal nostro villaggio, perché mio padre si rifiutò di ereditare nella comunità il ruolo di sciamano, rimasto vacante in seguito alla morte di mio nonno che lo ricopriva precedentemente. Una scelta che rifiutava una usanza locale e per cui fummo costretti a cambiare villaggio, trasferendoci nel vicino paese dove abitava il mio promesso sposo, Nasir, che ci ospitò temporaneamente in casa sua. Dopo un paio di anni trovammo sistemazione in una casa autonoma e io trovai il coraggio per informare mio padre della mia decisione; non volevo e non avrei mai sposato Nasir, non era lui l’uomo giusto per me.
Mio padre fu categorico, “ho dato la mia parola a Nasir e non intendo tornare indietro, ti sposerai con lui”. Non ci pensai due volte e, con l’aiuto di alcune amiche, scappai molto lontano, ad Ibadan, una grande città. Grazie all’ospitalità di un’amica di mio fratello, Sakinah, potei gradualmente ricostruirmi la mia vita. Tutto sembrava andare per il meglio, mi iscrissi anche alle scuole elementari, che frequentavo con piacere e profitto”.
I problemi ritornano ancora una volta nelle sembianze di un uomo, il marito della padrona di casa che cerca di abusare di lei.
“Riuscii a opporre resistenza, ma era chiaro che non potevo più rimanere lì e scappai per l’ennesima volta”.
Laraba è timorosa di scappare senza meta, per cui decide di tornare dalla sua famiglia, chiedere scusa a Nasir, e seguire la vita che mio padre aveva già tracciato per me.
“Venni riaccolta e accettata. Ancora una volta tutto sembrava riprendere a scorrere normalmente quando arrivò l’amore, quello vero, a scompaginare i piani e a rivoluzionare, questa volta per sempre, la mia vita.
“Faruq era giovane come me. Fu un colpo di fulmine, e decidemmo subito di andare a vivere insieme. Purtroppo questa volta Nasir non fu comprensivo e, dopo aver minacciato Faruq di morte, lo fece picchiare selvaggiamente da un manipolo di criminali assoldati per l’occasione. Non c’era più spazio per noi in Nigeria, io e Faruq, con la morte nel cuore, decidemmo di partire di lasciare la Nigeria. Attraverso un lungo viaggio attraversammo il Niger, la Tunisia, l’Algeria, dove vivemmo per qualche tempo con quasi nulla, campando di elemosina, pezzenti tra i pezzenti. Lì qualche amica di amiche ci aiutò nei momenti più disperati.
“Quando rimasi in cinta io e Faruq decidemmo che nostro figlio avrebbe meritato una vita diversa da quella a cui eravamo condannati, e decidemmo di raggiungere la Libia per trovare un modo, qualsiasi, per raggiungere l’Italia e, con essa, una vita finalmente diversa e degna per noi e per il piccolo che portavo in grembo. Non fu facile, in un modo o nell’altro trovammo i soldi per imbarcarci su un gommone. Una cifra per noi enorme: 500 euro a testa, ma facemmo di tutto per trovare quei soldi e scappare via una volta per tutte. Partimmo all’improvviso, senza preavviso, dopo aver aspettato a lungo, in un giorno di sole in piena estate. Il viaggio fu lungo e complicato, a bordo iniziarono le doglie, sempre più frequenti e dolorose. Chi poteva dava una mano, ognuno improvvisando qualcosa, nacque così su quel barcone Jamilah, la nostra primogenita, più forte delle nostre paure e delle onde del mare. Nacque appena in tempo, poco prima di essere intercettati dalle motovedette italiane ed essere trasferiti con un elicottero all’ospedale di Palermo, dove io e Jamilah ricevemmo le prime cure da medici veri. Insieme a Faruq fummo poi spostati nel centro di accoglienza di Lampedusa, per essere poi trasferiti temporaneamente a Bologna. Dopo un mese arrivammo a Rimini, dove ancora oggi viviamo, accolti in una struttura gestita da Eucrante grazie al progetto di accoglienza per richiedenti asilo. In questo momento abbiamo un permesso di soggiorno provvisorio per motivi umanitari, la nostra speranza è quella di poter essere inseriti in un progetto stabile di protezione per nuclei famigliari, in modo da poter gradualmente costruirci quella autonomia necessaria per realizzare finalmente il nostro progetto di vita per cui abbiamo rischiato la vita e abbandonato le nostre famiglie e la nostra terra”.
“Questa è una storia che mi ha particolarmente colpito, ma non è la sola – spiega il vicesindaco di Rimini Gloria Lisi – Sono vite da profughi che insieme agli operatori del nostro territorio raccogliamo quotidianamente da chi arriva in condizioni disperate nel nostro paese scappando da miseria e orrori, alla ricerca di una possibilità, di un’occasione di riscatto. Alcuni di loro li ho anche conosciuti, altri solo sentiti raccontare dai volontari che ogni giorno vivono insieme a loro. Non sono numeri – anche se siamo spesso portati a riassumere con delle banali cifre la loro presenze – ma vite, passioni, storie, ognuna diversa, ognuna insieme drammatica e piena di speranza nel futuro.
“Attraverso la storia di Laraba e della sua piccola Jamilah spero di far passare un messaggio diverso, più umano e profondo, di cosa voglia dire accogliere i profughi. Attraverso loro evidenziare la necessità e l’importanza di un lavoro che solo nella provincia di Rimini porta ad ospitare circa 560 profughi (di cui il 60% nel Comune di Rimini, ma il numero varia quotidianamente) in progetti che vedono insieme Prefettura, Enti Locali e associazioni.
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