TRATTARE la resa. Anzi, l’uscita «con onore». Alla fine dell’ennesima giornata con il fiato sospeso, con Ignazio Marino ormai ad un passo dal ritiro delle dimissioni, Matteo Renzi spedisce Matteo Orfini per tentare di chiudere una vicenda del comune di Roma dai contorni ormai grotteschi. Un incontro fiume, di oltre quattro ore, per consentire a Renzi di rientrare a Roma «senza più Marino sindaco, come da lui stesso sollecitato. Facile a dirsi, molto complicato da realizzarsi, tant’è che il summit finisce col primo cittadino che sentenzia una ‘fumata nera’: «Ci sto ancora riflettendo».
Si sono visti a casa del vicesindaco Marco Causi (c’erano anche gli altri assessori Stefano Esposito e Alfonso Sabella, l’assessore e braccio destro del sindaco Alessandra Cattoi e Roberto Tricarico, membro dello staff del sindaco) volutamente lontano dal Campidoglio con l’obiettivo di trovare una via d’uscita, come d’altra parte auspicato anche da Pier Luigi Bersani («per trovare una soluzione, ci si deve vedere») prima del ritorno del premier dal Sud America.
UN MODO per esorcizzare anche la possibilità, paventata dai sodali del sindaco, di trovarsi Marino sotto la scaletta dell’aereo (un blitz già fatto con Obama) o di essere costretto, appena messo di nuovo piede a Palazzo Chigi, a parlare della «questione romana» anziché cavalcare lo slogan dell’Italia «che ci crede, che riparte». Solo che il sindaco voleva trattare direttamente con lui i termini della resa, minacciando di trasformare la sua resistenza a Palazzo Senatorio in una trincea. Una posizione che ha mantenuto, in modo risoluto, anche durante tutta la lunga trattativa di ieri sera, deciso a «vendere cara la pelle», nella convinzione di avere «i numeri dalla mia parte». Più o meno queste le sue parole, prima dell’incontro: «Non me ne vado, voglio vederli in Aula che votano con le destre contro di me, così dopo io mi candido alle primarie e li lascio con le spalle al muro fino al 10 novembre», giorno deputato alla discussione delle mozioni di sfiducia. Un calcolo spietato, ma assolutamente realistico, quello di Marino, per trasformare la sua resistenza in un Vietnam per il Pd. Di qui la scelta di Orfini di «prendere il toro per le corna». O, almeno, provarci. Ma, alla fine del summit, la soluzione ancora non c’è. Lo confermano i presenti (da Sabella a Esposito fino a Causi): «Incontro cordiale e sereno. Si è aperto un dialogo, ma le posizioni restano le stesse».
Sul tavolo, varie ipotesi di exit strategy, compresa quella di arrivare al voto del bilancio del Campidoglio per poi bocciarlo e far cadere la giunta, senza voti di sfiducia o «strappi». Un’idea, questa, che darebbe anche al Pd maggior fiato sul voto nella Capitale che, a quel punto non potrebbe celebrarsi in primavera con le altre amministrative ma sarebbe rimandato all’autunno. Per i dem, terrorizzati all’idea di lasciare il campo ai 5 stelle, ormai saldamente primo partito a Roma al 35% dei consensi, questa strada sarebbe da percorrere senza indugi, per far decantare il più possibile il «caso Marino» e l’onda di piena del processo a Mafia capitale, che comincia la prossima settimana.
COMUNQUE vada, il «dopo Marino» è già iniziato per il Pd, dove si pensa a un candidato sindaco «credibile», forse appartenente alla cerchia dei ministri. Tempo fa era circolato anche il nome di Dario Franceschini, ma lui ha già fatto presente di non essere interessato. Ed era circolato anche il nome di Maria Elena Boschi, ma fin qui Renzi ancora non si è spinto.
Tra i nomi anche quello della ministra della Salute, Beatrice Lorenzin e quello di Marianna Madia, quest’ultima però scartata dopo un sondaggio che ha dato risultati «raggelanti» sul suo nome.
La Stampa