Roma. Sulla Libia Renzi si faccia sentire. Romano: altrimenti decide Londra

RenziAMBASCIATORE Sergio Romano, dal campo rimbalzano notizie su uno spiccato attivismo degli 007 inglesi in Libia. È sorpreso?
«Gli inglesi hanno sempre avuto una politica di attenzione per la Libia. Per ragioni di interessi nella regione, per tradizione e anche nel momento dell’operazione contro Gheddafi. È chiaro che c’è una continuità nell’interesse della Gran Bretagna per la Libia».
Re Idris è stato insediato dall’Inghilterra.
«Il Paese l’avevano creato loro. Prima del Regno, l’Italia e la Gran Bretagna, il ministro degli esteri italiano allora era Carlo Sforza, si erano accordati per una sorta di divisione, la Tripolitania all’Italia e la Cirenaica alla Gran Bretagna».
Perché l’operazione non andò in porto?
«La Russia mise una sorta di veto sull’accordo. Gli inglesi agirono unilateralmente e crearono il Regno di Libia, affidandolo a Idris che era il capo della Senussia (le tribù della Cirenaica, ndr)».
Londra ispirò anche la rivolta del 2011 contro Gheddafi.
«La Gran Bretagna si associò alla Francia. Io credo che l’iniziativa fosse anzitutto francese. Era Sarkozy che aveva bisogno di riscattare gli errori commessi. Era diventato l’alleato privilegiato di Mubarak in Egitto e di Ben Ali in Tunisia. Aveva bisogno di ripulirsi. Però la Gran Bretagna si associò subito. Questo dimostra che voleva conservare una posizione in Libia».
Quindi l’attivismo attuale dell’intelligence inglese si inserisce in una lunga tradizione.
«Sappiamo che l’Isis è nella regione di Sirte. È evidente che i servizi britannici fanno il loro mestiere. Non bisogna andare troppo lontano per trovare una spiegazione del fatto. Speriamo che gli italiani facciano lo stesso».
La prudenza di Roma sui raid in Siria le pare giustificata?
«Renzi non vuole affondare nelle sabbie mobili siriane. Non saremmo in grado di fornire una presenza militare efficace, nemmeno aerea, a parte un po’ di velivoli da ricognizione. Se manifestiamo un’adesione esplicita alla coalizione dei 60 Paesi guidati dagli Usa, finiamo veramente per essere l’ultimo degli alleati per importanza di contributo all’iniziativa».
Mentre in Libia?
«Un ruolo potremmo averlo, se non altro perché ne sappiamo più degli altri. La presenza continua dell’Eni ci mette nella condizione di avere molte più notizie, molti più contatti. Inoltre la Libia è uno dei valichi attraverso il quale passano i rifugiati e i migranti. Prima avevamo il trattato di Bengasi (quello del 2008 fra Gheddafi e Berlusconi, ndr). Era il massimo che potessimo ottenere. Adesso è molto difficile rifarlo».
Non c’è l’interlocutore.
«Certo, manca. Però non abbiamo mai perso il contatto con certe persone. È chiaro che se Renzi vuole qualcosa che possa esserci utile, ha tutto l’interesse a puntare sulla Libia. Caso mai è preoccupato del fatto che la Siria e l’Iraq facciano dimenticare che esiste un problema libico. Leon, lo spagnolo, se n’è andato».
Il governo di Tripoli sta criticando piuttosto aspramente anche il nuovo inviato dell’Onu, il tedesco Martin Kobler.
«Mi pare un episodio marginale se non forse indicativo della volontà del governo di Tripoli di farsi sentire, di far capire che esiste. Ma quello che preoccupa di più è la difficoltà di mettere assieme Tripoli e Tobruk. Quello è il problema grosso. Oltretutto a livello internazionale è stato riconosciuto prontamente il governo di Tobruk. Francamente mi piacerebbe riscoprire le ragioni per le quali questo è accaduto».
Perché?
«Mi pare una mossa avventata. Forse non era necessario farlo. O forse speravamo che il generale Haftar fosse in quel momento la soluzione del problema ed essendo saltati a bordo, a questo punto mi chiedo se il riconoscimento non sia stato poco saggio e intempestivo».

Il Corriere della Sera