San Marino. 8 marzo, viva le donne dei girasoli. E tutte le altre … di Alberto Forcellini

Nella notte tra mercoledì 23 febbraio e giovedì 24 il presidente russo, Vladimir Putin, aveva ordinato l’invasione dell’Ucraina, con la scusa di voler intervenire nelle autoproclamate repubbliche separatiste del Donbass, di Donetsk (Dpr) e Lugansk (Lpr). Le prime immagini del conflitto sgorgano a valanga dalle tivù. Tra queste, un frame in bianco e nero in cui una donna anziana, modestamente vestita, si avvicina ad un soldato russo in piedi lungo la strada apostrofandolo in modo brusco:

“Chi sei?”

“Stiamo facendo esercitazioni qui, per favore vada via” risponde lui.

Ma la donna si arrabbia ancora di più e dopo aver chiesto se fosse russo ha urlato: “Allora cosa ci fai qui? Voi siete occupanti, siete fascisti! Cosa ci fate sulla nostra terra con tutte queste pistole?” Ed è a quel punto che ha detto: “Prendi questi semi e mettili nelle tue tasche, così almeno i girasoli cresceranno quando ti sdraierai qui per sempre”.

Il girasole che nel linguaggio dei fiori simboleggia alterigia e orgoglio, è il simbolo dell’Ucraina e del giorno dell’Indipendenza del popolo ucraino. Nelle parole di una donna sconosciuta diventa più potente delle armi. In questi gesti così semplici e immediati, in queste parole così schiette eppure così forti, c’è infatti tutta la potenza della resistenza ucraina che avremmo visto nei giorni a seguire, ma anche il significato di un 8 marzo celebrato sotto le bombe e la minaccia di una guerra mondiale.

La stessa potenza iconica che hanno quelle donne sedute nei rifugi a confezionare molotov, la mamma che piange il suo piccolino ferito a morte, le contadine sulla strada verso la Polonia che allungano una bottiglia di latte e un pacco di biscotti alle mamme che cercano di raggiungere il confine con le auto piene di bimbi, la giovane sposa in tuta mimetica che sposa il suo uomo sul campo di battaglia; le ragazze senza trucco, senza tacchi e senza minigonne, che sotto il cappuccio di lana sfoggiano uno sguardo impavido e bellissimo: ci siamo anche noi.

È l’8 marzo anche delle mamme, delle nonne, delle mogli, delle sorelle, delle figlie di quei soldati russi mandati a fare una guerra per molti di loro incomprensibile. Tutti, donne e uomini, messi di fronte all’imperativo: spara altrimenti ti sparo.

È l’8 marzo delle donne afghane, di cui si parlava tanto fino a qualche settimana fa, che ora sembrano completamente dimenticate e che invece continuano a viere ogni giorno un calvario sempre più doloroso.

È l’8 marzo delle donne del Mali, della Libia, della Nigeria, delle tante guerre tribali africane che spingono i profughi fino alle coste del Mediterraneo per salire su bagnarole per le quali pagano un biglietto come quello di una nave da crociera. Non vanno in vacanza, cercano  una casa, un lavoro. Cercano stabilità e pace.

È l’8 marzo (anche se loro non lo sanno) delle bambine soldato rapite alle loro famiglie dai guerriglieri nella Regione dei Grandi Laghi, tra il Congo, l’Uganda, il Ruanda e il Burundi. Bambine soldato, e poi schiave del sesso. Quasi nessuna riesce ad arrivare ai 20 anni di vita.

È l’8 marzo delle donne infibulate.  Si tratta di quella forma di mutilazione genitale femminile eseguita per ragioni prevalentemente religiose e socio culturali. Questa pratica ha come scopo la chiusura quasi completa dell’ostio vulvare e spesso si accompagna all’escissione del clitoride, perché la donna non provi più alcun piacere nell’atto sessuale. Se non è una tortura, non sapremmo come altro definirla.

È l’8 marzo delle donne che lavorano: donne operaie, segretarie, commesse, scienziate, ricercatrici, infermiere, dottoresse, avvocatesse, magistrato, parlamentari, pilota di aerei, direttrici di orchestra, attrici, pittrici, musiciste, camioniste, commercianti, imprenditrici, giornaliste, contadine. Donne. Semplicemente donne.

Ormai non c’è più professione in cui esse non si siano misurate con determinazione, capacità, competenza e successo. Eppure la strada per un’effettiva parità dei diritti, e di stipendio, è ancora lunga. Per questo c’è ancora l’8 marzo che lo sta a ricordare alle donne e agli uomini.

a/f