L’accordo di associazione con l’Unione Europea, presentato come un successo diplomatico, rischia di rivelarsi un’operazione carica di rischi, di costi e di vincoli che, nel lungo periodo, potrebbero compromettere in modo grave e forse irreversibile l’identità, l’autonomia e l’equilibrio economico-istituzionale della Repubblica di San Marino.
Si tratta di un’intesa sbilanciata, che chiede moltissimo a San Marino e concede ben poco in cambio, soprattutto se si guarda con realismo a ciò che effettivamente contiene il testo dell’accordo e a ciò che ne deriverebbe.
Beccari & co. hanno cercato di incorniciare l’intesa come un’inevitabile modernizzazione, una necessaria apertura verso l’Europa, una “opportunità storica” per imprese, giovani, lavoratori. Ma se scendiamo dal piano delle formule generiche e delle retoriche da convegno, ci accorgiamo che i vantaggi sbandierati sono modesti, condizionati e in larga parte teorici, mentre i costi, le limitazioni, le perdite di sovranità e di margine decisionale sono reali, pesanti, vincolanti.
San Marino non aderisce all’Unione Europea: non siederà al tavolo decisionale, non voterà nei consessi legislativi dell’Unione, non parteciperà alla definizione delle norme, ma dovrà ugualmente recepire vaste porzioni dell’acquis communautaire, ovvero il corpo normativo europeo, senza possibilità di incidere su ciò che sarà obbligata ad applicare.
È la negazione stessa del principio di autodeterminazione.
L’obbligo di recepire norme europee in campo fiscale, ambientale, giuridico, bancario, del lavoro, della concorrenza e dei servizi implica un progressivo e massiccio svuotamento della capacità della Repubblica di legiferare secondo la propria tradizione, le proprie necessità e le proprie dimensioni.
Si chiede a un micro-Stato con un’amministrazione snella, con risorse umane e tecniche limitate, di allinearsi a standard concepiti per Stati continentali, con apparati amministrativi colossali e strutture decisionali multilivello.
L’adeguamento non è gratuito: comporta costi amministrativi, spese per la formazione del personale, aggiornamenti legislativi continui, riorganizzazione delle procedure e delle istituzioni.
Nulla di tutto questo verrà finanziato dall’UE. Al contrario, il prezzo sarà tutto a carico di San Marino, che dovrà rimodulare il proprio bilancio per adeguarsi a regole nuove, imposte dall’esterno, spesso in contrasto con il proprio impianto normativo e giuridico.
La questione della sovranità è centrale e non può essere minimizzata: l’autonomia decisionale su temi fondamentali come fisco, banche, lavoro, ambiente, appalti pubblici, aiuti di Stato, sarà fortemente ridimensionata. I margini per scegliere politiche diverse da quelle previste dall’UE diventeranno sempre più esigui, e la Repubblica si troverà a essere vincolata da regolamenti su cui non ha avuto alcuna voce in capitolo.
Inoltre, l’accordo prevede obblighi futuri – che potrebbero estendersi con nuove direttive o modifiche regolamentari europee – senza però offrire a San Marino alcuna rappresentanza piena. In parole semplici, San Marino sarà soggetta a vincoli che oggi non esistono, senza la possibilità di impedirli o negoziarli. È un contratto a perdere, firmato senza diritto di replica.
In campo economico, l’apertura al mercato unico, sbandierata come beneficio, va valutata con prudenza. Da un lato può favorire qualche impresa esportatrice con capacità di penetrare mercati più ampi; dall’altro lato, aumenta la concorrenza per le imprese sammarinesi, in particolare quelle piccole e medie, che rischiano di soccombere di fronte ad attori europei più strutturati, con accesso a capitali maggiori, reti logistiche più evolute e normative più familiari. In un contesto concorrenziale più ampio, chi ha dimensioni ridotte – come la maggior parte delle imprese sammarinesi – parte svantaggiato. L’erosione della competitività locale è un rischio concreto e già osservabile in altri micro-Stati che hanno firmato accordi simili.
Anche il sistema fiscale e bancario verrà sottoposto a forti pressioni. Le norme UE in materia di trasparenza, aiuti di Stato, fiscalità delle imprese e normativa bancaria sono pensate per economie di scala e per strutture diverse da quelle sammarinesi. Il rischio è che San Marino debba modificare radicalmente il proprio impianto fiscale, perdendo attrattività per investitori e operatori economici, e che il sistema bancario venga sottoposto a requisiti che ne compromettano la sostenibilità operativa. È una trasformazione radicale imposta dall’alto, non scelta dal basso. Anche il mercato del lavoro e il sistema di welfare potrebbero subire pressioni: l’aumento della mobilità, l’ingresso di manodopera esterna, le possibili deroghe agli attuali equilibri normativi potrebbero generare tensioni sociali, squilibri occupazionali e problemi di sostenibilità nel lungo periodo. Se l’apertura non è governata con attenzione, si rischia di compromettere la stabilità sociale e la coesione interna.
Poi la c’è questione della permanenza del T2, che rimane nonostante l’accordo di associazione, e i fondi che non arriveranno anche se Beccari & co ci sperano. Siamo stato terzo e rimarremo tale, perchè – e questo bisogna tenerlo bene a mente – non ci vogliono e non sanno che farsene di noi. E ce lo dimostreranno direttamente.
La questione dell’identità nazionale non è meno importante. San Marino ha una storia giuridica e culturale millenaria, fondata su istituzioni uniche, su prassi consolidate e su un’idea forte di autogoverno. L’imposizione di norme europee omologanti, la necessità di adottare prassi giuridiche esterne, la sovrapposizione tra diritto UE e diritto interno rischiano di erodere progressivamente gli elementi distintivi della tradizione sammarinese, rendendo la Repubblica sempre più simile a un’entità amministrativa periferica dell’Unione. Per un piccolo Stato, l’identità giuridica è una forma di difesa, non un ornamento folkloristico. Svuotarla significa indebolire l’intero impianto statale. Eppure, tutto questo viene proposto senza un vero dibattito, senza un confronto pubblico autentico, senza consultazioni popolari. L’accordo non è stato sottoposto a referendum, e il popolo sammarinese – titolare della sovranità – non è stato pienamente informato sui contenuti reali, sulle clausole vincolanti, sui margini di deroga e sulle conseguenze a lungo termine.
Se spiegato e informato adeguatamente, al contrario di quello che pensa Beccari, il popolo sammarinese capisce molto bene l’argomento e l’ondata di proteste degli ultimi giorni ne è la conferma.
La narrazione è stata gestita da pochi, con una comunicazione rassicurante ma opaca, centrata su concetti generici e prive di reali approfondimenti.
Chi solleva dubbi viene accusato di essere conservatore, nostalgico o ostile all’Europa. Ma non è questo il punto. Il punto è che un trattato di questa portata, che tocca il cuore delle istituzioni sammarinesi, che impatta su ogni cittadino, dovrebbe essere sottoposto a un vaglio popolare.
È una questione di democrazia, non di ideologia, nè tanto meno di tifoseria.
Alla luce di tutto questo, la conclusione è chiara. L’accordo di associazione, così concepito, è un errore. Non porta vantaggi proporzionati ai sacrifici richiesti. Impone costi pesanti, vincoli crescenti, riduzioni di sovranità, senza offrire contropartite credibili. Si può collaborare con l’Europa, certo. Si possono sfruttare i bandi disponibili per i paesi terzi, creare un ufficio di monitoraggio intelligente, aprirsi quando serve e dove conviene.
Ma firmare un trattato di adesione mascherata, che ci trasforma in una propaggine normativa dell’Unione senza farci membri né rappresentanti, è un atto di sottomissione istituzionale.
E chi lo firma, se lo firma senza spiegare tutto questo alla popolazione, si assume una responsabilità politica e storica pesantissima.
La libertà non si svende.
La sovranità non si firma con leggerezza.
San Marino merita di restare libero, forte e padrone delle proprie scelte. Sempre.
Marco Severini – direttore GiornaleSM
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