La democrazia diretta è il cuore della nostra Repubblica. Il referendum è lo strumento con cui i cittadini possono dire la loro sulle scelte più importanti. La legge fissa tempi e regole precise: firme autenticate, documenti corretti, termini perentori. Basta un errore, e tutto salta. Ma cosa accade quando a non rispettare quelle stesse regole è il Collegio Garante, l’organo che dovrebbe vigilare sulla legalità del procedimento?
Negli ultimi due referendum sull’associazione all’Unione Europea, le decisioni dei Garanti hanno sollevato più di un dubbio.
Il primo caso: il referendum dei CapiFamiglia
L’udienza si è svolta il 1° settembre 2025. La legge stabilisce che i Garanti devono decidere entro venti giorni. La scadenza era quindi il 21 settembre. La sentenza porta però la data del 22 ed è stata inviata via mail lo stesso giorno.
Cosa dice la legge: Art. 20, comma 4 L.Q. 1/2013: il Collegio “deve decidere entro venti giorni dall’udienza”.
La legge non parla di “ventuno giorni” né di proroghe.
Cosa è successo: i Garanti hanno firmato la sentenza un giorno dopo la scadenza, sostenendo che la domenica non contasse. Ma via PEC si poteva trasmettere anche il 21. Se un cittadino presenta un documento un giorno in ritardo, lo perde. Qui no.
Il secondo caso: il referendum socialista
Il Collegio aveva fissato l’udienza al 22 settembre. Tre giorni prima, con una comunicazione ufficiale, l’ha rinviata al 6 ottobre, perché due membri non erano disponibili.
Cosa dice la legge: Art. 9 e art. 10 L.Q. 1/2013: il Collegio deve essere convocato entro venti giorni e deve decidere entro venti giorni dalla convocazione.
La parola “deve” non lascia spazi: il termine è perentorio.
Cosa è successo: l’udienza è stata rinviata oltre i termini previsti. Non è una semplice scelta organizzativa: la legge non permette deroghe. In pratica, il procedimento si è spostato fuori dai limiti legali.
Un problema di imparzialità. C’è poi un aspetto delicato. Lo stesso Collegio si era già espresso sul quesito dei CapiFamiglia. Ora si trova a giudicare su un quesito socialista quasi identico. È difficile pensare che chi ha già deciso una volta possa essere davvero neutrale quando deve esprimersi di nuovo sullo stesso tema.
La contraddizione con il 2010. La cosa più grave, però, è il cambiamento di orientamento. Nel 2010, con la Sentenza n.4, i Garanti avevano ammesso un quesito simile, spiegando che il referendum era un atto di indirizzo politico e che il divieto valeva solo per i trattati già ratificati, non per i negoziati in corso. Nel 2025, invece, il quesito viene dichiarato inammissibile perché ritenuto “tardivo” o “prematuro”. Ma la legge del 2013 non ha introdotto restrizioni: anzi, ha rafforzato il principio del favor referendum, cioè la tendenza a privilegiare l’ammissibilità.
Perché è grave: La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha detto più volte che cambiare orientamento senza spiegazioni solide crea confusione giuridica e viola il principio della certezza del diritto. Alla Cedu ci sono diverse sentenze che dicono questo.
Due pesi e due misure
Il quadro che emerge è chiaro: ai cittadini si chiede di rispettare ogni virgola della legge, ai Garanti sembra invece consentito di muoversi con maggiore libertà. Se il cittadino sbaglia, il referendum non passa. Se sbaglia l’organo di garanzia, si chiude un occhio.
Questo non è equilibrio, né parità delle armi. E soprattutto rischia di trasformare lo strumento principe della democrazia diretta in un percorso ad ostacoli, dove chi vigila sulle regole finisce per non rispettarle.
San Marino è sempre stata orgogliosa della sua tradizione di libertà e partecipazione. Ma questa tradizione vive solo se la legge vale per tutti, cittadini e istituzioni. Nei referendum, la forma non è un dettaglio: è sostanza.
Marco Severini – direttore GiornaleSM
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