Si legge dalla sentenza di appello a firma del Prof. Brunelli che ha assolto il Gendarme Mirko Mazzocchi.
”Dunque, si può prevenire ad una prima conclusione: che l’incriminazione del favoreggiamento personale in San Marino è più ristretta di quanto non sia quella che offre il codice italiano, senza che, tuttavia, la si debba limitare ai soli aiuti forniti per sottrarsi alla coercizione o alla identificazione personale. Invero, anche aiuti atti a fuorviare la raccolta delle prove della responsabilità possono entrare nello stretto applicativo della norma, purché riguardino la persona a cui l’aiuto è rivolto.
Tanto premesso, si deve anche precisare che l’aiuto non deve necessariamente aver avuto successo, nel senso che la norma non richiede che la persona non sia stata trovata, o che le ricerche si siano effettivamente complicate o siano state rallentate, così come la raccolta delle prove a carico.
Si deve convenire che la condotta ”prestare aiuto” descrive una modalità comportamentale e non un risultato da raggiungere, quindi che si si incrimina il pericolo di ricaduta sul processo e non la sua effettiva ricaduta.
Tutto quanto procede non equivale però ad affermare che qualunque violazione di un provvedimento del giudice che sia astrattamente volta a preservare il quadro probatorio , raccolto o da raccogliere, integri automaticamente gli estremi dell’aiuto punibile. Sul punto occorre, infatti, attentamente distinguere i casi integranti gli estremi del reato, da quelle condotte cui la legge riserva una rilevanza soltanto disciplinare-amministrativa.
Il discrimine non può che correre sulla dimensione del pericolo concreto per il bene tutelato, poiché se è vero – come accennato – che il favoreggiamento è un reato di pericolo e non di danno, è anche vero che non può incriminarsi la mera inosservanza di un divieto, senza che dalla stessa possa derivare, in concreto, una possibilità di incidenza sul materiale probatorio oggetto di tutela.
Da questo punto di vista non può costituire di per sé reato il semplice consentire il colloquio tra detenuti, laddove lo stesso sia vietato dal giudice, senza che si accerti se attraverso tale condotta si è creata una situazione pericolo di inquinamento probatorio. Una siffatta situazione non può desumersi automaticamente dalla violazione del divieto, perché un conto è affermare che il divieto ha esattamente quello scopo, un altro stabilire che quella finalità è stata concretamente messa a repentaglio – o poteva esserlo – in conseguenza della condotta disobbediente.
Nella specie, non solo nessuna indicazione è stata fornita o acquisita agli atti, ma, addirittura, si assume nel capo di imputazione e si ritiene nella sentenza appellata che i colloqui abusivamente consentiti avrebbero avuto ad oggetto la messa in campo di una strategia difensiva per ottenere la cessazione della misura cautelare, obiettivo che, a prescindere dalla concreta possibilità di realizzazione, già in partenza non ha a che fare con la raccolta di prove a carico dei due detenuti.
Rimane, dunque, del tutto al di fuori dell’orizzonte dell’accertamento giudiziale in che modo i colloqui, che l’imputato avrebbe consentito con la sua condotta assolutamente censurabile, si sarebbero potuti ritorcere contro la ”ricerca della prova” della responsabilità penale dei due detenuti.
In particolare, in coerenza con la delimitazione del capo di imputazione, nessun accertamento è stato compiuto sulle modalità con le quali il Podeschi, che all’epoca aveva verosimilmente accesso ai colloqui con i suoi legali e con i suoi familiari, avrebbe potuto mettere in campo espedienti illeciti per indurre le Autorità procedenti a disporre la revoca della misura cautelare incidendo sul quadro probatorio, che presupponevano, richiedevano o suggerivano un contatto diretto con la detenuta Baruca.
Del resto, il semplice preannunciare alla donna che gli avrebbe nominato un medico per farsi sottoporre a perizia, potrebbe anche considerarsi un ”espediente”, ma di certo non richiede il coinvolgimento della detenuta coimputata e non riguarda il quadro probatorio a carico del Podeschi e la relativa ricerca in atto da parte dell’Autorità.
In mancanza di qualunque elemento, anche nella descrizione fornita dal capo di imputazione, da cui trarre la sussistenza dell’estremo del pericolo per la raccolta delle prove a carico, richiesto per la punibilità del favoreggiamento, e su cui tra l’altro dovrebbe convergere il dolo dell’agente, si deve ritenere che il fatto ascritto al Mazzocchi non costituisce di per sé reato, e tale rilievo in diritto, assorbe qualunque altra questione afferisca la sussistenza del fatto e alla commissione del medesimo da parte dell’imputato.
All’imputato è dunque ascritto un fatto che, mentre in prima ha indubbiamente imposto la massima cautela essendo espressivo di potenzialità lesive e consistendo comunque in una gravissima violazione dei doveri funzionali del gendarme, si è poi dimostrato, tuttavia, non costituire reato., nonostante l’intrinseca sua gravità e la sua astratta pericolosità. Ne consegue che si deve riformare l’appellata sentenza, traendo in iure le conseguenze dell’indicato riscontro.
PER QUESTI MOTIVI
assolve l’imputato dal reato ascrittogli perché il fatto non costituisce reato
Il Giudice d’appello penale
Prof. David Brunelli”