Da ormai tre settimane l’Iran è percorso da accese e partecipate manifestazioni in decine di città. La protesta di piazza è contro la morte violenta di Mahsa Amini, una giovane studentessa universitaria arrestata a Teheran dalla “polizia morale” e morta qualche giorno dopo in un ospedale della capitale. Benché le autorità avessero negato qualsiasi forma di violenza, i parenti e alcuni legali non hanno dubbi: Mahsa, arrestata per un uso “non appropriato” del velo (qualche ciocca di capelli era scoperta), è stata picchiata e forse torturata in un centro di rieducazione, ed è deceduta a seguito delle violenze subite dalla polizia.
Gli arresti sono continuati e le violenze pure. Ma non hanno frenato le manifestazioni. Una settimana fa, Hadis Najafi è stata uccisa con sei colpi di arma da fuoco al collo, al petto e al viso, solo perché ha sfidato la polizia facendo una coda di cavallo con i suoi capelli biondi. Ora sono decine e decine di migliaia le donne che si tagliano i capelli in diretta tivù e sui social per protestare o per dimostrare vicinanza alle donne di Theran.
È di ieri la notizia di una 30enne romana, Alessia Piperno, arrestata in Iran e detenuta in un carcere della capitale iraniana. È riuscita, non si sa come, mandare un messaggio con richiesta di aiuto.
La stessa oppressione religiosa che imprigiona le donne afghane. Sulla scorta dell’esempio delle donne iraniane, qualche giorno fa sono scese di nuovo in piazza innalzando cartelli per rivendicare il diritto allo studio e alla libertà. Durissima la risposta dei talebani, che le hanno colpite pesantemente con il calcio dei loro kalashnikov.
Le donne russe invece manifestano contro la guerra, contro il massacro dei loro uomini al fronte. Più della metà di quelli che sono scesi in piazza per protestare contro la mobilitazione voluta da Putin, sono donne, e anche bambini. Guerra significa violenza, povertà, migrazioni forzate, vite spezzate, insicurezza e mancanza di futuro. È inconciliabile con i valori e gli obiettivi essenziali di una famiglia. La guerra esaspera la disuguaglianza trai sessi e riporta indietro di molti anni le conquiste dei diritti umani delle donne, e non solo. La guerra porta con sé non solo la violenza delle bombe e dei proiettili, ma anche la violenza sessuale. Già in Cecenia, la donne avevano deciso le sorti della guerra. Le lupe di Sernovodsk: come dimenticarle?
Dall’ Iran all’ Afghanistan, dalla Tunisia alla Liberia alla Russia: speranza e coraggio hanno il volto delle donne. Non imbracciano fucili, ma per i governi dittatoriali e per i regimi teocratici sono più temibili di qualsiasi esercito.
L’attuale moto di protesta in Iran è un movimento interclassista in cui hanno un ruolo significativo le universitarie. Lo slogan “donne, vita, libertà” ben ne rappresenta le aspirazioni (e viene gridato anche da donne che portano lo hijhab) cosa questa di grande interesse perché indebolisce la falsa linea divisoria tra credenti e non credenti, tra osservanti tradizionalisti e credenti non osservanti delle tradizioni. Alle dimostrazioni non prendono parte, però, soltanto donne e studentesse universitarie dei ceti medi; partecipano anche strati proletari scontenti delle proprie condizioni di esistenza. Sono stati gridati slogan come “pane, non velo”, e l’ostilità di massa nei confronti dei luoghi e dei mezzi simbolo del potere ha portato a forme di protesta non esattamente borghesi: piccole barricate, incendio o distruzione di auto della polizia, assalto a municipi e, sembra, a due moschee.
Secondo Amnesty International sono già molte decine le persone uccise durante le manifestazioni dalle forze di sicurezza iraniane. L’organizzazione è entrata in possesso di documenti che danno precise disposizioni alle forze dell’ordine. Con uno, datato 23 settembre, in cui il comandante delle forze armate della provincia di Mazandaran ordina di “affrontare senza pietà, anche arrivando alla morte, qualsiasi disordine provocato da rivoltosi e antirivoluzionari”. Una reazione che fa capire come le proteste di questi giorni possano seriamente far vacillare il regime teocratico iraniano, che fa perno proprio sul controllo maniacale della vita degli iraniani, ma soprattutto delle iraniane.
Lo scontento delle donne assume una dimensione politica potente, che muove la solidarietà di altre donne da tutto il mondo, dei parlamenti, dei governo, delle istituzioni internazionali. Tagliarsi i capelli è sempre stato per le donne simbolo di un desiderio di cambiamento e lo scontento delle donne iraniane diventa solidarietà, condivisione. Il che si traduce nella sensibilizzazione dei governi, della diplomazia. Se la spinta dal basso trova eco verso l’alto, qualcosa può davvero succedere. Se questo è il senso delle manifestazioni che si stanno animando un po’ in tutte le piazze, vuol dire che la società di oggi è viva e partecipe. Ma soprattutto che l’oscurantismo fondamentalista e le strutture patriarcali possono essere sconfitti.
a/f