San Marino. Considerazioni sulla vecchiaia nell’epoca dell’eterna giovinezza … di Angela Venturini

Ipsa senectus morbus est, scriveva Seneca. La vecchiaia è malattia di per se stessa. Questo significa che fin dall’antichità alcuni sintomi come l’inaridimento della pelle, l’imbiancamento dei capelli, i dolori articolari e la debolezza delle gambe, i problemi di vista, la depressione, cioè i segnali inequivocabili della vecchiaia, erano considerati malattie incurabili.
Dovevamo arrivare all’inizio del terzo millennio per cambiare idea e capire che la vecchiaia non è una malattia, anche se è accompagnata da molte malattie, per altro oggi quasi tutte curabili e addirittura prevenibili.
Tutto questo è accaduto per una serie di fattori che coincidono con le migliorate condizioni di vita (si mangia di più e meglio rispetto al passato, si vive in case più salubri), ma soprattutto grazie alle formidabili scoperte della scienza medica e farmacologica, che consentono un trattamento molto più efficace e spesso risolutivo delle patologie più comuni. Tutti fattori che hanno regalato al genere umano 20 / 30 anni di vita in più. Un regalo che bisognerebbe cercare di sfruttare al meglio.
La vecchiaia è un’età bidimensionale, che si può vivere in lunghezza, cioè cronologicamente, o in larghezza, cioè in termini di qualità. Ma sono sempre più le persone che riescono a vivere entrambe le dimensioni, nella consapevolezza che non ci saranno altre possibilità (come avviene invece in gioventù) e che bisogna approfittare subito di quello che viene, con quel senso fatalistico per cui è meglio godere di quello che si ha, piuttosto che rimpiangere quello che si è perso.
È vero che la qualità della vecchiaia passa anche attraverso la qualità della vita vissuta, nonché sulla coltivazione di interessi e di hobbies che possono essere validamente alimentati durante il pensionamento: dagli sport alla cultura, dall’orto alla cura dei nipoti, dal volontariato alle relazioni affettive. Nessuno più si stupisce se ultra settantenni riescono a costruirsi nuovi legami amorosi, si divertono, vanno in giro, vanno a ballare e a fare crociere, quasi che stiano vivendo una seconda giovinezza, proprio perché le età della vita non sono più semplicemente cronologiche.
A far da contro-altare, una malattia difficilmente curabile: la solitudine, perché pian piano spariscono dall’orizzonte di vita i colleghi, gli amici, i parenti, mentre figli o nipoti spesso si allontanano perché hanno nuove esigenze di vita e di lavoro. Allora diventa reale il rischio depressivo e con esso l’acuirsi di patologie altrimenti di secondo piano. La depressione è un male invisibile, che colpisce almeno il 13% degli over 65 con conseguente apatia, isolamento sociale, iporessia (mancanza di appetito), irritabilità e disfunzione cognitiva, sintomi che spesso sono accompagnati da episodi sporadici di perdita della memoria. Questi sono gli anziani sempre più soli, tristi e assolutamente fragili.
L’antidoto è non fossilizzarsi sui pensieri precedenti, su ciò che la vecchiaia ha trasformato, ma sulle possibilità che comunque la vecchiaia può riservare e su quella dimensione di libertà, impossibile da godere quando si ha famiglia e si lavora, che può essere validamente utilizzata per crearsi nuovi ambiti di vita. Anche perché poi non ce ne saranno altri. In ogni caso, in queste circostanze, più dei farmaci fa meglio un po’ di compagnia.
Un ultimo pensiero va al momento in cui il decadimento corporeo non si ferma all’aumento delle rughe del viso o alla perdita della massa muscolare, ma degenera in malattie invalidanti, quelle che consumano un individuo fino a farlo diventare quasi un vegetale. Questa è la paura vera: rimanere inchiodati in un letto, chiusi in una casa di riposo, completamente in mano a infermieri, badanti, medici; essere imbottiti di medicine e di antidolorifici che spesso portano via anche la conoscenza e la percezione della realtà. Allora non sarebbe meglio morire, piuttosto che continuare con trattamenti che si profilano sempre più come accanimento terapeutico? Non sarebbe dunque ora di lasciare libere le persone di scegliere un’eventuale eutanasia? È quello che si chiama “fine vita”, un diritto sociale già previsto e regolamentato in molti Paesi, mentre in altri rimane vincolato a credenze ideologiche e fideistiche. Un argomento divisivo, sicuramente, del quale si parla sempre di più. E magari ne parleremo anche noi.
Angela Venturini