San Marino. Dal mito del progresso alla nuova umanità…di don Gabriele Mangiarotti

Nella sua opera Les droits de l’homme et la loi naturelle, Maritain pone un’alternativa di cui non si può sottovalutare l’importanza:

«Si può ancora notare, scrive, che, qualunque sia la loro fede o la loro incredulità religiosa, gli uomini che ammettono e quelli che negano il cammino in avanti dell’umanità prendono così posizione su ciò che è praticamente decisivo dal punto di vista della vita delle società umane».

E infatti, se si stabilisce come postulato che l’umanità cammini in avanti, allora tutto lo svolgimento della storia dev’essere interpretato come necessariamente buono; non bisogna contrastarlo in nulla, ma piuttosto stimolarlo affrettando il lieto termine che deve coronare il suo costante progresso.

Se invece si respinge questo postulato, non si dovrebbe tuttavia ammettere come legge primaria che l’umanità regredisca necessariamente. Il progresso o il regresso di una società si misura dalla sua conformità o dalla sua non conformità con la legge oggettiva dei valori, vale a dire, in ultima analisi, con la volontà antecedente di Dio che ha fissato per ogni cosa la perfezione propria del suo essere.

Il primo termine dell’alternativa proposta da Maritain è quindi valido. Il fatto di stabilire come postulato la marcia in avanti dell’umanità implica una concezione della vita basata sulla realizzazione della dialettica storica; ma, poiché la dialettica storica del mondo moderno è la Rivoluzione, opporsi alla Rivoluzione è male, lavorare per lei è bene! (Julio Meinvielle, La Città di Cristo e la Città dell’Anticristo)

A volte fa bene riflettere sulle affermazioni dei filosofi, per cercare di capire meglio la nostra storia e ciò che si può o si deve fare.

In questo contesto culturale, da alcuni descritto come cambiamento d’epoca, da altri come l’epoca della «intelligenza artificiale», altri ancora segnano questi anni come anni «dopo il Covid», credo che sia opportuno interrogarsi su quanto accade e sui tempi che viviamo.

Riporto da un articolo, come sempre interessante, di Giulio Meotti queste considerazioni: “Viviamo in un’epoca strana, segnata da uno spopolamento diffuso e continuo” scrivono su Foreign Policy gli studiosi Ivan Krastev e Stephen Holmes. “Il mondo intero è alle prese con una crisi di sterilità. Le popolazioni si stanno riducendo nelle nazioni ricche e povere, nelle società laiche e religiose, nelle democrazie e nelle autocrazie… Nel 21° secolo, l’immaginazione demografica ha soppiantato l’immaginazione ideologica come forza trainante che plasma la visione collettiva dell’umanità del futuro. Questa immaginazione demografica evoca una società culturalmente molto diversa da quella in cui viviamo attualmente, generando paura piuttosto che speranza. E mentre le proiezioni demografiche sono spesso fallibili, tuttavia modellano profondamente le nostre aspettative e percezioni, mettendo in discussione il nostro senso collettivo di sé.”

E, riflettendo sulla attuale guerra in Ucraina, così prosegue: “Nell’immaginario politico del Cremlino, la civiltà occidentale è caduta in un declino irreversibile, avendo perso la sua energia e vitalità. L’Europa, secondo Putin, assomiglia a una ‘casa di riposo’ gestita da migranti. La guerra tra Russia e Ucraina è talvolta descritta come una guerra del passato, una tipica guerra di logoramento. Ma è molto più radicale e terrificante di così. È la prima moderna ‘guerra di lutto’. È improbabile che sia l’ultima”.

Catastrofismo o realismo? Progresso indefinito, pur con qualche momento di crisi, o perdita di valori, regresso verso un’epoca buia e oscura?

Mi impressiona sempre leggere le considerazioni su quello che viene chiamato «inverno demografico» (che a San Marino, almeno nell’ultimo anno ha toccato livelli impressionanti, se il tasso di natalità si aggira verso lo 0, 0%) e soprattutto le proposte che vorrebbero cancellarlo, perché mi pare che siano soluzioni che non risolvono. Ritengo che la causa, oramai da tanto tempo, sia un gap culturale, una mentalità che non è amica della vita, una cultura della morte, che si impadronisce di una cultura dei diritti, che è alla radice di questo «inverno».

Una volta si diceva motus in fine velocior, o, se preferiamo un proverbio nostrano, «i nodi vengono al pettine». Ci siamo illusi che il progresso sia irreversibile, che, non «essendo più nel Medioevo» tutto sarebbe andato per il meglio, che la rinnovata «laicità dello stato» avrebbe portato frutti migliori di quell’antico confessionalismo foriero solo di privilegi e in qualche modo di ingiustizie.

Ma vediamo il crescere della paura del futuro, della perdita di speranza dei nostri giovani, della solitudine impotente e del disinteresse per la ricerca, della perdita dell’amore per la nostra storia e realtà… come se questa nostra «Antica terra della libertà» non fosse più ciò che di più caro abbiamo.

Le famiglie spesso perdono le ragioni della loro unità, la scuola è staccata dalla relazione costitutiva con i genitori, beh, della politica forse è meglio non parlare, sembra più preoccupata del mantenimento del potere che della ricerca e del servizio del bene comune, l’informazione sembra essere censura e propaganda… allora, che fere?

Ci sono luoghi in cui si sperimenta un umano più affascinante, tentativi di creazione di soluzioni più corrispondenti alò bisogno del cuore… credo che bisogna scommettere su ciò che emerge di vero, senza illudersi in un futuro che non c’è. La speranza non è un sogno, ma un riconoscimento, e la nostra storia ci mostra, anche da vicino, esperienze di autenticità umana che, come germogli, fanno presagire un futuro migliore. Vanno costruite e aiutate, nella dottrina sociale cristiana c’è un principio fondamentale, si chiama sussidiarietà. Non sostituzione, ma aiuto e sostegno per quella promessa di bene che ivi è contenuta. Superando schematismi e pregiudizi (l’altro giorno alcuni sono stati rimproverati perché parlavano con quelli «dell’altra parte». Beh, noi non siamo così!) perché è solo il bene che è «diffusivum sui» capace di creare novità (e solo il male è dia-ballein, divisivo come il suo ispiratore e padrone).

Non quindi l’illusione di un progresso irreversibile, ma l’alleanza dei forti e liberi, capaci di dare mani e cuore al bene che ci affascina e ci commuove, e a coloro che ne vogliono essere collaboratori e protagonisti.

don Gabriele Mangiarotti