San Marino. Dalla Cina a Teheran, i mille focolai della rivoluzione contro i regimi totalitari in nome della libertà …

Va in onda il dissenso contro i regimi totalitari. Dalla Cina all’Iran, scendono in piazza i giovani (e non solo loro), donne e uomini, con un solo obiettivo: libertà. È una nuova stagione di protesta e di potenzialità potenti, che cambiano il linguaggio del dissenso, ma anche l’esercizio della censura.

La politica “zero Covid” imposta dal governo cinese dalla scorsa estate risveglia la voglia di libertà dei cinesi e, dopo 33 anni da Piazza Tienanmen, migliaia di persone scendono in piazza contro il lockdown. Tutto è cominciato a Urumqui, capitale dello Xinjang, dove un incendio aveva provocato la morte di 10 residenti in un edificio da cui, ha rivelato un testimone alla Bbc, non era possibile uscire. Centinaia di persone sono scese in strada mostrando i pugni, superando barriere presidiate da civili in tuta e mascherina, e urlando slogan contro i draconiani lockdown di cui Urumqui è stata costretta.

La protesta si allarga. La agitano gli studenti, ma non solo. Diventano migliaia. Per la prima volta vengono presi di mira anche il Partito comunista e il presidente Xi, di cui sono state chieste le dimissioni. La protesta diventa spettacolare a Pechino, dove l’apparato schiera tutte le sue forze, ma nessuno retrocede. La rivoluzione diventa clamorosa quando dalle piazze di Pechino e Shangai si alzano migliaia di fogli bianchi: nessuna scritta, nessun colore, nessuno slogan. Il linguaggio simbolico che essi esprimono è più potente delle cannonate, ma il potere non riesce a leggerlo. La rivoluzione silenziosa si allarga sui social, coinvolge anche i giovani che sono all’estero e che non hanno paura di lasciare l’ideologia comunista.

Sullo zero-Covid il presidente Xi Jinping ha messo tutto il suo peso, ma i lockdown stanno estenuando e impoverendo una popolazione che fino ieri viveva in estrema indigenza, che mangiava terra e radici, e che non vuole tornare indietro.

Allora Pechino aumenta la sicurezza, ma allenta le restrizioni. Timidamente, si affaccia l’isolamento domiciliare, solo «in alcuni casi» per i pazienti contagiati a basso rischio. Il Dragone ha avuto quasi tre anni di tempo per prepararsi al Covid dopo l’emersione del virus a gennaio 2020 nella città di Wuhan, ma piuttosto che investire nella prevenzione ha concentrato le risorse sul controllo, basato su “tolleranza zero”, lockdown, test di massa e quarantene spartane. Ma ora deve fare i conti con un’intera popolazione che non vuole più subire.

Altrettanto eclatante la protesta in Iran, che ormai dura da mesi, innescata dalla morte di Mahsa Amini, avvenuta mentre era in custodia proprio della polizia religiosa nel centro di detenzione di Vozara a Teheran. Non portava il velo secondo i dettami religiosi. Ma oggi le donne vogliono libertà: non vogliono essere costrette a portare il velo e magari morire per questo. Il mondo intero si schiera con le donne (e tanti uomini) iraniani in una lotta che sempre più sta diventando sociale e politica, cioè contro il regime degli ayatollah. Le ultime notizie danno lo scioglimento della polizia morale, l’organo incaricato di controllare il rispetto dei precetti imposti dal regime della Repubblica islamica. Ma secondo Al Jazeera non ci sono conferme. Infatti, qualche giorno fa, in vista della mobilitazione indetta dagli attivisti dal 5 al 7 dicembre, il Consiglio di Sicurezza, ha dichiarato: “Le forze di sicurezza, con tutta la loro forza e senza tolleranza, faranno fronte a ogni nuova rivolta, che finora è stata sostenuta dai servizi di intelligence stranieri”. Dunque, “la caduta” dell’hijab in vigore dal lontano 1983, dopo la Rivoluzione, e divenuto simbolo di volontà di riforme radicali nella società iraniana, non sarebbe in discussione, anche se il procuratore ha annunciato che il parlamento iraniano discuterà una modifica della legge sull’uso obbligatorio del velo islamico. È tutto da vedersi. In fondo l’hijab è come il muro di Berlino, “se cade il velo cade tutto” dice Masih Alinejad, giornalista dissidente esule in Usa.

Un altro fronte di protesta, del quale si sa pochissimo, ma che esiste, si sta muovendo in Russia. Dopo dieci mesi di guerra, Putin avrebbe incassato delusioni e frustrazioni sul campo e ora, secondo Arkady Ostrovsky, russian editor dell’Economist, Mosca rischia di diventare “ingovernabile” e di “precipitare nel caos”. La guerra sta trasformando la Russia in uno Stato fallito, con confini incontrollati, formazioni militari private, popolazione in fuga, decadenza morale e con la possibilità di un conflitto civile. “Sebbene la fiducia dei leader occidentali nella capacità dell’Ucraina di resistere al terrore di Putin sia aumentata, cresce la preoccupazione per la capacità della Russia di sopravvivere alla guerra” si legge sulla testata britannica. Pertanto, non è escluso che anche qui la rivolta popolare si faccia ben presto sentire.

E poi c’è l’Afghanistan, dove ogni minimo accenno di rivolta, soprattutto da parte delle donne, viene soffocato nel sangue. Ma anche qui la miccia della rivoluzione sta covando sotto la cenere ed è pronta ad esplodere.

a/f