PARTE QUARTA
Nella realtà concreta qui all’esame un siffatto constatato venir meno del rapporto fiduciario del RENZI con il suo datore dí lavoro, lui debitamente esternato per iscritto (con la lettera del 22 settembre 2015), concretava – evidentemente a una valutazione globale che quella che presiede alla considerazione, da parte del datore, della cessazione della fiducia: cfr., per la lex laci vicinorius per Cass., lav., 17 marzo 2014, n.6110; 30 dicembre 2019, n. 34736; 17 novembre 2021, n. 3497 6) la c.d. giustificaztezza del recesso cui bene l’appellata sentenza si richiama.
Alla giustificatezza del recesso del datore dal rapporto dirigenziale fa condivisibile riferimento – in virtù della clausola generale di correttezza e buona fede – la consolidata giurisprudenza di legittimità italiana, cui la sentenza bene si riporta: cfr. qui ex multis, Cass., lav., 20 novembre 2000, n.14974; 22 agosto 2003 n. 12365; 7 agosto 2004, n.15322; 19 agosto 2005, n. 17039; 10 novembre 2021, n.33254.
Questa giurisprudenza dice che la giustificatezza del recesso del datore non si identifica con la giusta causa o il giustificato motivo del licenziamento, sicché fatti o condotte di loro non integranti una giusta causa o un giustificato motivo ben possono comunque giustificare il licenziamento del dirigente purché facciano riferimento a ragioni effettive che incidono sulla fiducia. A questi fini dì giustificatezza, in cui si ha riguardo non a un episodio ma appunto a una valutazione globale, può rilevare qualsiasi motivo, purché non banale e giuridicamente apprezzabile, atto a turbare il centrale legame di fiducia con il datore. Nell’impresa, dove vengono organizzati e combinati beni e lavoro assumendo un rischio economico in vista dell’utile, resta inerente alla coesione e alla sinergia aziendale, grazie all’imprescindibile rapporto fiduciario, che il dirigente segua e realizzi diligentemente gli indirizzi dell’organo amministrativo e dei dirigenti a lui superiori: e che, nella condotta effettiva, non se ne discosti, specialmente se polemizzando e ripetutamente. Infatti quella fiducia che Io lega al datore di lavoro, e che è alla base dell’attribuzione delle mansioni apicali affidate alla sua responsabilità, lo vincola a conformarsi a quello perché, per la natura delle cose, la fiducia è suscettibile di essere lesa da un’importante deviazione dalla linea segnata dalle direttive generali del datore di lavoro.
Dell’esistenza di una siffatta giustificatezza qui, stando agli atti, non pare dato dubitare: non solo per quanto esternato nell’atto e dedotto in causa, ma anche – come si vedrà partitamente – per quanto il RENZI stesso assume come ripetute e serie ragioni di dissenso con il Consiglio di Amministrazione e il Direttore Generale.
Il che è di suo sufficiente ad escludere l’arbítrarietà” e dunque in sé l’abusività, e perciò l’invalidità, del recesso. È opinione consolidata, e coerente con la logica, che ad escludere che il licenziamento abbia carattere di pretestuosità e arbitrarietà basti la rilevazione, da parte del dato di lavoro del c.d. “disallineamento” del dirigente (ex multis, nella giurisprudenza italiana: Cass. lav. ord. 26 gennaio 2022, n. 2246; sentt. 11 giugno 2008, n. 15496; 2 dicembre 2010, n. 18998; 13 dicembre 2010, n. 25145; 1 febbraio 2012, n. 1424; 10 dicembre 2015, n. 24941; 15 marzo 2018, n. 6426; 30 dicembre 2019, n. 34736).
Questo non significa che il dirigente non possa, in principio, avere opinioni difformi, come ben può essere, vista la naturale opinabilità delle scelte aziendali e visto il rischio di concorso in responsabilità che può intravedere.
Il tema è un altro, vale a dire che nell’impresa la soluzione delle divergenze di opinioni segue la gerarchia organizzativa: per cui quelle opinioni difformi, per quanto in principio possano assumere i toni di una critica collaborativa, non possono che poi recedere, specialmente in punto di operatività, di fronte alla persistenza dell’indirizzo del vertice dell’impresa.
In altri termini il dirigente, se crede nell’interesse dell’impresa e anche per non incorrere in responsabilità, ben può rappresentare nelle giuste e riservate sedi il proprio dissenso dagli indirizzi e dalle prospettate scelte aziendali: nondimeno ciò deve avvenire in maniera ragionevole e proporzionata, con modalità formalmente corrette (cfr. Cass., lav., 31 maggio 2022, n.17689) e in ultimo comunque; se questa diversa opinione rimane non condivisa dal livello superiore, al dirigente non resta in quei contesto che o recedere a sua volta dal rapporto o senz’altro conformarsi agli indirizzi e alle scelte che non condivide, e operararsi con la debita diligenza che l’importanza del suo ruolo richiede.
E questo il RENZI avrebbe dovuto fare ma evidentemente ha preferito mantenere una sua linea di contrapposizione.
La conseguenza di questi principi e di queste regole è che a legittimare il recesso del datore dí lavoro risulta sufficiente Ia manifestazione (qui avvenuta con la ricordata lettera del 22 settembre 2015) delle ragioni di sintesi che hanno portato alla seria turbativa del rapporto di lavoro dirigenziale.
1.b Tutto questo di suo [si tratti a rigore di “licenziamento in tronco” o meglio – come bene afferma la sentenza – di recesso ad nutum ad effetti immediati è questione qualificatoria che quanto a conseguenze resta in questa sede non dirimente) assorbe e supera la materia e la procedura disciplinari invocate con il primo motivo d’appello. Queste postulano per base un rapporto lavorativo stabile e indipendente dalla fiducia, com’è invece proprio per gli impiegati (per i quali non è essenziale un siffatto legame di consonanza con il datore dì lavoro). Si veda, per queste considerazioni nella lex loci vicinioris, il realistico e noto rilievo di Cass., SS.UU, 29 maggio 1995, n. 6041, per cui dallo stringente legame fiduciario deriva, “per il modo stesso di configurarsi‘ del rapporto dirigenziale, “la sua estraneità ad un rapporto disciplinare, il quale a ben vedere sarebbe di ardua configurazione. Immaginare una lettera di “richiamo” o una “multa” o altra sanzione indirizzata ad un dirigente, e che dovrebbe necessariamente essere a conoscenza di un certo numero di dipendenti di quel dirigente (scrittura, protocollo, spedizione, ecc.), senza che ciò inevitabilmente produca una grave lesione della posizione apicale del dirigente, è fuori del verosimile e della realtà aziendale; e ciò vale altrettanto per le contestazioni e per le giustificazioni precedenti; così come è impensabile il permanere della fiducia (si noti, non il generico rapporto fiduciario di mansioni appena superiori al livello meramente esecutivo, ma al livello assai più penetrante della collaborazione di un alter ego}, dopo una ipotetica e del tutto inverosimile procedimentalizzazione di quanto accennato. […] La figura del dirigente (“potere di incidere sulla vita dell’azienda”) mal si attaglia ad un rapporto disciplinare con le diverse sanzioni (richiamo, ammonizione, sospensione, ecc.) di guisa che fa unica sanzione sarebbe il licenziamento; ma in tal modo, richiedendosi per esso la giusta causa, per effetto di interpretazione giurisprudenziale, si abrogherebbe il recesso ad nutum che è peculiare dí questa categoria’’ , anche nel presente caso “il licenziamento non ha carattere sanzionatorio proprio perché nella realtà della vita delle aziende, desumibile dalla giurisprudenza, è dato riscontrare come il recesso si verifica essenzialmente causa della perdita di fiducia”. Vero è che poi quell’indirizzo è mutato con Cass., SS.UU. 20 marzo 2007, n. 7880 e con altre sentenze come quelle evocate a pagg. 8 e 9 dell’appello. Ma qui non si é nell’ordinamento italiano e le rammentate considerazioni della sentenza del 1995 valgono perché sono di ordine logico e ontologico piuttosto che interpretativo, mentre quelle della sentenza del 2007 sono dichiaratamente frutto di una “una interpretazione del dato normativo costituzionalmente orientata”, vale a dire di una diretta applicazione interpretativa, evidentemente in sede di rinforzata nomofilachia italiana, di precetti della Costituzione italiana che a San Marino non può valere. Sembra piuttosto da sottolineare ancora la coessenzialità tra dirigenza (effettiva e non pseudo tale) e fiducia che distingue questo tipo di rapporto di lavoro da quello delle altre categorie, segnatamente dagli impiegati, per i quali questa è non essenziale e perciò il rapporto è, in prevenzione, normativamente guidato da regole formali e procedimentali di garanzia. È il riflesso dell’insegnamento del diritto romano per cui, per sostenere í vincoli intersoggettivi, le norme vengono a sopperire alla mancanza della fiducia, altrimenti autosufficiente (è il dirigente stesso, alimentando quella fiducia, a garantire la propria stabilità).
Negare una tale ontologica differenza e invocare anche per i dirigenti l’apparato normativa precostituito dal legislatore a tutela degli impiegati e per loro non previsto vale come trasformare in via pretoria il dirigente da proiezione diretta dell’imprenditore in un soggetto da lui potenzialmente discosto ma comunque oltremodo privilegiario: che da un lato continua a ricevere il trattamento economico, i benefici individuali e gli accessori che lo connotano; ma dall’altro a questi cospicui commoda verrebbe a sommare i commoda delle garanzie legali di stabilità che assistono il ben meno remunerato e più modesto impiegato.
Però l’impiegato non è tenuto alla fiducia del datore di lavoro, ma solo ad adempiere diligentemente la sua obbligazione di locatio operarum e proprio per questo è assistito, per la sua dignità di lavoratore delle tutele di legge non potendo contare sulla coesione offerta dal rapporto fiduciario.
Muovendo invece da quell’orientamento costituzionale si va a creativamente dar corpo a un siffatto modello di dipendente privilegiario, alleggerito di incommoda – la non applicazione di norme a garanzia del lavoratore – che presidiano la fiduciarietà e contraddistinguono questo tipo di rapporto di lavoro (tra cui il più importante è, appunto, il rischio di recesso datoriale ad nutum). Per conseguenza, è il caso di aggiungere, si va a paradossalmente dismettere, banalizzando le garanzie di stabilità del ceto impiegatizio, l’attenzione al fondamentale principio di eguaglianza e con esso a ragionevolezza e proporzionalità che ne sono l’implicazione, che richiedono che ogni parificazione di trattamento sia razionalmente giustificata.
1.c Tornando al caso concreto, in termini di effettività – che è ciò che qui rileva perché su quella necessariamente ha fondamento la fiducia – il dato fondamentale resta comunque che l’azienda bancaria ha constatato il progressivo deterioramento, per fatto del RENZI, del complessivo rapporto fiduciario, non già l’avvenuta commissione di singoli episodi ipotizzabili come illeciti disciplinari: e a quella maggiore constatazione essa ha dato seguito, evidentemente consapevole di rinunciare a un dirigente di risalente presenza e a suo tempo stimato di quel livello di fiducia, facendo senz’altro cessare da sùbito – avvalendosi della sua prerogativa datoriale – il rapporto mettendo fine al relativo, pregresso, investimento su un apprezzato dipendente che nell’istituto aveva svolto la sua carriera fino a raggiungere quel livello.
Legittimamente, perciò, una volta constatato questo deterioramento, con le sue manifestazioni, la Cassa di Risparmio poteva dar luogo al proprio recesso immediato, così come è avvenuto.
Ne segue che, riguardo all’oggetto dell’attuale primo motivo di appello, bene ha considerato il primo giudice che non v’era luogo al rinvio e alla pratica del Capitolo (rapporti disciplinari) della legge stessa: cioè, per quanto qui rileva, al procedimento e alle forme disciplinari, essendo questo recesso del datore di lavoro manifestamente dovuto al venir meno del rapporto di fiducia. Vero è che, come assume l’appello, l’art. 15 cit. non preclude l’applicazione delle disposizioni del Capitoli I perché l’art. 15, nel menzionare le eccezioni, fa riferimento solo a «norme del presente capitolo», cioè evidentemente del Capitolo II.
Ma qui è il fatto che presiede alla lettera a definirne la ragione concreta: non si tratta di singole mancanze, ma di una valutazione globale degli elementi che hanno causato il venir meno della fiducia nella sua figura di dirigente.
Non è dunque una questione disciplinare, sicché comunque non v’è titolo in concreto per invocare quel Capitolo l. Resta logico che un addebito disciplinare sarebbe comunque di suo, per come testé ricordato, indice di un venir meno del rapporto di fiducia: ma qui comunque si va oltre, perché si passa direttamente alla constatazione dell’esaurimento della fiducia; ed è questo dato, assorbente, che tanto di suo basta a giustificare il recesso del datore di lavoro. Diversamente, il rapporto sarebbe stabile indipendentemente da siffatti addebiti: ma questo è logicamente incompatibile con la funzione e la responsabilità proprie del dirigente nel contesto apicale dell’impresa.
FINE PARTE QUARTA
