San Marino. Documenti. Vladimiro Renzi contro Cassa di Risparmio, la sentenza di appello a firma del giudice prof. Giuseppe Severini. Parte Quinta

San Marino. Documenti. Vladimiro Renzi contro Cassa di Risparmio, la sentenza di appello a firma del giudice prof. Giuseppe Severini. Parte Quarta

2. Parimenti non fondato, e sulla base delle medesime ragioni, è il secondo motivo d’appello, che lamenta la natura ritorsiva/discriminatoria del licenziamento, per cui male il primo giudice avrebbe applicato gli artt. 7 e 15 della legge n. 23 del 1977.

Vale qui rilevare, a questi riguardi, il dato essenziale costituito dal limite del sindacato del giudice civile sulle scelte d’impresa e sull’esercizio del potere organizzativo e gestionale dell’imprenditore. L’apprezzamento dell’idoneità ad integrare la giustificatezza è una valutazione estrinseca del giudice che non può prescindere dall’insondabilità degli elementi dell’intuitus personae che concretavano la fiducia e di quelli che la hanno fatta venir meno. Non è data, in ragione del principio di libertà d’impresa, vagliare nel merito o nell’opportunità tecnica organizzativa le scelte strategiche dell’imprenditore e così, a seguire invece la prospettazione recata dal motivo dell’appello affermare che quelle della banca erano erronee e che bene il dirigente prospettava un diverso indirizzo. 

Questo limite è insito nei principi generali di uno Stato la cui costituzione economica è riferita al mercato: ha riguardo ai rapporto tra l’autorità e la libertà di iniziativa economica e l’inerente rischio d’impresa e ha implicita base costituzionale (cfr. art. 10 della Dichiarazione dei diritti: «La proprietà e l’iniziativa economica privata sono garantite»). Naturalmente resta fermo il sindacato estrinseco del giudice del lavoro sulla sussistenza di motivi illeciti o discriminatori che assumano rilievo determinante sul singolo atto (qui, in particolare, il vaglio circa la non ricorrenza dei casi tipici dell’art. 7, che codificano il licenziamento discriminatorio) e, in rispetto delle clausole generali di correttezza e buona fede, la presenza della giustificatezza che si è ricordata (e che come accennato, per comune opinione, è di livello ben meno pregnante della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento). 

Per l’utilità che se ne può trarre in via interpretativa, vale anche considerare che nella vicina Repubblica Italiana il principio, già implicito e fisiologicamente accettato in riferimento all’art. 41 Cost. (cui in questo corrisponde il ricordato art. 10 della Dichiarazione dei diritti), è anche ormai espressamente codificato, ma come dice la dottrina senza particolare carica innovativa (e perciò può essere qui evocato), dall’art. 30, comma 1, della legge 4 novembre 2010, n. 183 [c.d. “collegato-lavoro’’, per il quale nelle controversie dí lavoro «(..) il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell’ordinamento, all’accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente» (cfr. anche, ad es., Cass., lav., 15 maggio 2015, n. 10038; 18 novembre 2015, n. 23620). 

Sicché, per quanto il RENZI possa essere convinto della prevedibilità delle proprie opinioni come le più convenienti per la Cassa di Risparmio sui temi in questione con lui (in ipotesi, tra l’altro, riguardo alle complesse vicende del gruppo finanziario bolognese Delta della cui connessione già aveva avuto a occuparsi anche l’Autorità Giudiziaria penale italiana), resta un dato che va ultra vires rispetto ai poteri di accertamento e pronuncia del giudice del lavoro il ribadire in giudizio delle sue ragioni rispetto alle altre, di opposto orientamento, della dirigenza dell’impresa: e paritariamente articolarle sulle varie vicende che egli stima a tal fine significative, sottoponendole una per una al vaglio giudiziale/a sua posizione di lavoratore subordinato e la sua responsabilità particolare di dirigente — per le ragioni ricordate — lo obbligavano alla conformazione a quanto stabilito dal Consiglio di Amministrazione e dal Direttore Generale a lui sovraordinato. La presente questione si configura come interna al rapporto lavorativo e ha rilievo ex post allegare le questioni pubblicistiche inerenti le vicende l’istituto bancario in questione. Resta insomma che in una controversia civile, vale a dire tra privati com’è quella di lavoro — quand’anche, per la debolezza di base del lavoratore, orientata all’accertamento pieno dei fatti e della c.d. verità materiale -, l’ordinamento non consente l’ingerenza pubblicistica del giudice nelle scelte strategiche d’impresa. Non è qui dato vagliare se davvero nella prospettiva dei risultati economici di CRSM, le valutazioni del RENZI fossero le più convenienti e opportune per la banca. Era ed è una valutazione che riguarda la buona e utile gestione aziendale. 

Perciò, per la responsabilità anche personale gravante su chi opera le scelte, spettava e spetta non al giudice del lavoro ma agli organi di governance della Cassa di Risparmio di San Marino; e al di sopra di questi, come è poi notoriamente avvenuto, in virtù del profilo pubblicistico dell’ordinamento settoriale bancario, all’autorità di vigilanza bancaria per la situazione generale della banca, in ragione delle ingenti perdite e della rilevata non «sana e prudente gestione», con conseguenti azione di responsabilità, adozione di misure di risanamento e pubblicizzazione dell’intero capitale sociale. 

Centrale e determinante è comunque qui che la presente controversia, per i concreti fatti storici reciproci delle parti cui si riferisce come causa petendi ha oggetto questioni interne inerenti il risolto rapporto contrattuale di lavoro del dirigente RENZi. 

Al giudice del lavoro, per questi limiti propri del suo ufficio, è dato solo verificare quanto, in relazione alla controversia individuale, attiene alla persistenza del rapporto fiduciario proprio della posizione del dirigente RENZI: e qui se venne adeguatamente e congruamente esternato, con l’atto aziendale di recesso, quel disallineamento, vale a dire quel discostamento effettivo del RENZI dalle direttive e dalle indicazioni superiori che dà corpo alla giustificatezza del recesso. 

Così nei fatti è avvenuto, come la gravata sentenza dice analiticamente e come qui ancora mostra lo stesso RENZI, con i molti concreti riferimenti di interna divergenza che invoca. Egli lì deduce a propria giustificazione e così, in ipotesi, potrebbe risultare se al giudice potesse competere il valutare se la sua linea era più adeguata di quella del SIMONI o del C.d.A. all’interesse aziendale e, soprattutto, se questa valutazione si concludesse nel senso che egli afferma. 

Nondimeno, oggettivamente, quei fatti mostrano di loro l’effettivo disailineamento del RENZI, da lui mantenuto comunque nei perimetro degli interna corporis della banca (dunque, nella dimensione privata). 

Egli era e restava dipendente dell’impresa e di questa avrebbe dovuto, in assenza di opposti interventi esterni, personificare una funzione direttiva sui suoi sottoordinati, conforme a quelle, altrui ma nell’impresa superiori, indicazioni (ferma, appunto , la sua eventuale iniziativa presso l’autorità di vigilanza di cui gli atti non danno però conto). 

Quanto ora ribadito concerne tutti i nominativi casi richiamati partitamente dal secondo motivo d’appello: dalle ripetute serie divergenze coi superiore, il direttore generale dott. SIMONI, e comunque con il Consiglio di Amministrazione o suoi esponenti, a varie vicende inclusa quella DB Trade Limited e rapporti connessi (il cui rilievo penale concerne la responsabilità personale di quegli imputati, ma non giunge per riflesso ad affidare al giudice del lavoro un sindacato dì cui non dispone) alle questioni del controllo delle partecipate o delle società Centro Servizi s.r.I., o del Gruppo Delta, o del gruppo M.E.C. di Spello, o la controllata croata Banca Kovanica, o il Gruppo Beghelli e così via; alle progressive tensioni con il Consiglio di Amministrazione; e a ciò che il RENZI chiama e lamenta come demansionamento ma che in realtà, per quanto qui è dato apprezzare, appare come conseguenza naturale dell’affievolimento progressivo dell’essenziale rapporto fiduciario di cui si è detto, e in cui non si vede ricorrere l’elemento ritorsivo (è nelle cose che, a fronte delle manifestate divergenze e della loro constatata inconciliabilità, amministrazione e direzione generale assumessero via via un atteggiamento irrigidito verso l’interessato restringendone i margini effettivi di conoscenza e intervento sulla dinamica aziendale, specie per quanto concerne il controllo delle partecipazioni) o alcuno dei casi tipici di indebita discriminazione di cui al ricordato art. 7 della legge n. 23 del 1977 (certo non dimostrato dalla mancanza di prospettive di accordo sulla quantificazione delle spettanze finali del RENZI). 

3. Non fondato appare anche il terzo motivo di appello, con cui il RENZI, seppure in via subordinata ai precedenti motivi, lamenta l’omessa denuncia della sentenza sull’indennità sostitutiva del mancato preavviso. 

AI riguardo, l’appello invece all’art.33 (Recesso dal contratto) della legge 17 febbraio 1961, n. 7 (Legge per la tutela del lavoro e dei lavoratori) per il quale «il rapporto di lavoro a tempo indeterminato non può essere risolto da nessuna delle parti, salvo il caso di cui alla lettera f) dell’art. 30, senza previa disdetta o senza indennità corrispondente, nei termini e nella misura stabiliti nella allegata tabella C. Questa disposizione si applica anche per i casi di cessazione, riduzione, liquidazione dell’azienda, di apertura del concorso giudiziale tra i creditori dell’azienda stessa. La indennità di anzianità è dovuta anche in caso di morte del prestatore di lavoro». 

A tale disposizione della legge, l’appello aggiunge quella per cui «il periodo di preavviso sarò raddoppiato a favore degli impiegati i grado superiore (procuratori, institori e dirigenti)» e afferma che al RENZI spetta(va)no – ai sensi della Tabella C) allegata alla legge- sei mesi di preavviso. 

Va qui considerato che, in disparte che non è fondato l’addebito di omissione di pronuncia perché l’appellata sentenza, seppur sinteticamente, tratta il tema a pag. 50 stimandolo assorbito in quello della ritenuta giustificatezza del recesso, il motivo risulta non fondato perché la pretesa non ha quella base che l’appello assume. 

Infatti è anzitutto corretto il detto sintetico ragionamento del primo giudice, posto che per il dirigente l’intuitus personae e la natura fiduciaria della responsabilità e delle prestazioni, che non possono protrarsi una volta che tale fiducia è venuta meno, assorbono – analogamente a come ampiamente si è visto – nell’equilibrio del rapporto anche quello che per l’impiegato o l’operaio, che non sono legati da altrettanta fiduciarietà, è il periodo di necessario preavviso del recesso del datore di lavoro. 

La funzione del preavviso, inoltre, e dell’indennità in sua surroga, è di consentire al lavoratore di disporre del tempo necessario per reperire un nuovo impiego: tempo e prospettive che qui certo non erano mancati nei non brevi tempi di sedimentazione del consapevole disallineamento che si è detto. 

Oltre ciò, resta il dato che l’invocata disposizione dell’art. 33 contempla contestualmente, come si è visto, l’eccezione «di cui alla lettera f) dell’art. 30»: la quale si riferisce appunto al casi licenziamento in tronco», che – in disparte la questione del nomen – è quanto, agli effetti reali sul rapporto lavorativo si è legittimamente materializzato con la citata lettera del 22 settembre 2015. Non si vede perciò con quale coerenza con questa determinante situazione il RENZI avrebbe potuto fruire di un preavviso temporale (e dunque di una indennità, in surroga di questo). 

Del resto, ancor più in via generale, l’art. 5, secondo comma, della stessa legge n. 7 del 1961 afferma che «il preavviso non è dovuto nel caso di licenziamento in tronco«. 

Il “licenziamento in tronco” è una risoluzione connessa a una giusta causa, vale a dire a fatti tali da non consentire la prosecuzione nemmeno provvisoria del rapporto: altrettanto provoca, per il dirigente, il venir meno purché giustificato, del rapporto fiduciario, sicché anche a qualificarlo in concreto – correttamente come recesso ad nutum vale qui comunque l’analogia da eadern ratio. Non solo: l’invocata Tabella C) allegata alla legge si riferisce solo al «personale impiegatizio o intermedio» e non anche ai dirigenti. Il motivo è dunque di suo non fondato. 

4. Ancora, non fondato risulta il quarto motivo di appello, con cui il RENZI torna a lamentare il danno previdenziale. L’appellata sentenza ha ricordato, sempre a pag. 50, che la pretesa vorrebbe che al RENZI sia riconosciuto un tale danno in ragione del mancato raggiungimento del trattamento pensionistico pieno che avrebbe conseguito se fosse stato collocato a riposo alla scadenza naturale, cioè nel 2018. 

L’assunto della sentenza è esatto. 

Posto che legittimamente – come visto – il RENZI è stato licenziato in tronco il 22 settembre 

2015, non vi vede per quale coerente ragione egli, quanto a trattamento previdenziale, potrebbe pretenderne un livello, per di più a carico del datore di lavoro, parametrato su un periodo ulteriore in cui non ha lavorato (pari a quello tra tale data e quello che sarebbe stato il suo naturale collocamento a risposo). Si tratterebbe di non solo di ana dato sine causa ma anche di un’incoerenza irragionevole e priva di giustificazione. Si aggiunge con la sentenza, che si tratta di un’aspettativa di mero fatto e indimostrata. 

5. Infine, nemmeno appare fondato il quinto motivo di appello, con cui il RENZI torna a lamentare il danno non patrimoniale e l’omessa pronuncia al riguardo Non si vede, infatti, quale ingiusta lesione dell’immagine professionale, per fatto diretto e immediata della Cassa di Risparmio, egli abbia avuto a patire dal recesso del datore di lavoro. A seguire il ragionamento che evidentemente assume per dato causativo la eco esterna del fatto, ne verrebbe che ogni licenziamento — pur se giustificato, come quello qui al vaglio – dovrebbe dar luogo a un siffatto titolo risarcitorio per fatto altrui, chiunque altro ne scriva per il pubblico e ne parli. 

ll che è irragionevole e contrario alle caratteristiche prime del principio di responsabilità, che è personale. 

Quanto alle ”esternazioni mediatiche” ad opera di terzi, che il RENZI afferma per lui lesive, per le medesime ragioni non si vede perché ne debba, oggettivamente e sempre per fatto altrui, rispondere il datore di lavoro: e sempre in attesa che il RENZI dimostri che assumono toni oggettivamente lesivi e illeciti. 

6. In conclusione, l’appello va respinto. All’appellante vanno, per il criterio della soccombenza, l’addebito delle spese processuali del grado dell’appellata, da quantificare con apposito, separato provvedimento, e gli accessori di legge di cui in dispositivo. 

P.Q.M. 

definitivamente pronunciando, respinge l’appello di RENZI Vladimiro avverso la sentenza del Commissario della Legge 7 gennaio 2020, che conferma. 

Condanna RENZI Vladimiro alla rifusione delle spese processuali d’appello della Cassa di Risparmio di San Marino, onorari inclusi, da liquidare con apposito successivo provvedimento. 

Ai sensi dell’art. 40, comma 2, della legge 24 ,giugno 2022 n.94, il compenso di cui all’art. 4, comma 2, della legge 21 gennaio 2004 n.4, come mod. dallo stesso art. 40, comma 1, è a carico dell’appellante RENZI Vladimiro. 

Si dà atto, a quanto risulta dagli atti del procedimento, del non avvenuto suo previo deposito da parte dell’appellante. 

Ai sensi dell’art. 62, comma 2 della legge 22 dicembre 2011 n.200, è pertanto a carico dell’Amministrazione l’anticipazione del medesimo compenso salva poi rivalsa e nella misura del detto art. 4, comma 2, della legge n. 4 del 2004.  

San Marino, 22 settembre 2022/1722 d.f.R. 

Il Giudice

Dott. Giuseppe Severini 

Giudice sammarinese dott. Giuseppe Severini