In un drammatico testo di Vittorio Robiati Bendaud, su «Edith Stein, la storia di un’ebrea», ho trovato questa riflessione di Emil Fackenheim, che scrive: «… le leggi di Norimberga tolsero agli ebrei ogni scelta. Al contrario, agli “ariani”, esse diedero una scelta che prima di allora non era mai esistita: essi potevano accettare o rifiutare la designazione di “ariano”. Se le Chiese della Germania – o anche del mondo – avessero accolto le leggi di Norimberga con il più radicale grido di battaglia dei “soldati di Cristo” […] il Terzo Reich sarebbe crollato e la fede cristiana ora sarebbe molto più solida, rispettata e universale che mai. Ma le Chiese cristiane non riconobbero il tempo della loro chiamata, un kairòs unico nella loro storia. […] Si resta profondamente turbati dall’insidiosità dell’attacco nazista al cristianesimo, forse il più profondo dei molti, e non resta che rimpiangere quel kairòs che fu mancato.»
Certamente questo richiamo, poi approfondito e contestualizzato dall’autore ebreo mio amico, in primis riguarda il comportamento delle chiese al tempo di Hitler, la loro responsabilità, il loro coraggio o la loro riprovevole paura (e Bendaud riconosce anche le voci coraggiose di coloro che hanno saputo parlare chiaramente, come pure ci ricorda la lettera scritta dalla stessa Edith Stein al Sommo Pontefice Pio XI), ma non possiamo fermarci a una considerazione sul passato.
Credo personalmente che nella nostra storia le occasioni per vivere il kairos, cioè quel momento unico di responsabilità di fronte al quale dobbiamo sapere fare le nostre scelte, sia – se pure in modi e gradi diversi – di fronte a noi e ci interpella e ci dovrebbe risvegliare da quel torpore e da quella passività che a volte sembrano caratterizzare il nostro impegno nella vita sociale.
È pur vero che a San Marino abbiamo lasciato che un piccolo gruppo, determinato e insistente, riuscisse a convincere quasi la metà della popolazione che un delitto abominevole (parlo senza mezzi termini dell’aborto) venisse approvato dalla legge civile come un diritto fondamentale delle donne. Sì, in questo non sono state sole, il cosiddetto mainstream ha sostenuto (e sostiene con accanimento) tale tragica convinzione, sordo al clima culturale che in molte parti del mondo si sta modificando in favore della vita nascente. Dobbiamo però riconoscere che poche sono state le voci che hanno saputo contrastare questa deriva negatrice della vita, e che quella cultura, così bene espressa dalla coraggiosa voce di Madre Teresa di Calcutta nel discorso in occasione del conferimento del Premio Nobel per la pace, è stata consegnata al privato delle coscienze e non è stata motivo di scelte fortemente politiche (al punto che nessuna forza politica del paese ha espresso l’assoluto rifiuto della scelta abortista).
Se i tanti credenti (e coloro che una volta venivano chiamati gli «uomini di buona volontà») avessero avuto il coraggio di esprimere in pubblico «il più radicale grido di battaglia dei “soldati di Cristo” […]» credo che i cuori degli uomini avrebbero risposto diversamente nella circostanza del Referendum sulla depenalizzazione dell’aborto (ossia sulla sua legittimazione, con le conseguenze che poi abbiamo visto pure nel campo educativo).
Abbiamo a volte riascoltato con commozione e convinzione il motto tanto caro a Don Milani , I care, e credo che questo anno che sta iniziando ci debba trovare sulla breccia perché questa “cura dell’uomo” – Studeo humanitati dicevano gli antichi – sia il compito che ci assumiamo responsabilmente, vincendo la duplice illusione che non ci sia più niente da fare per contrastare questa deriva o che invece si ritenga che non ci sia alcun problema da affrontare, restando queste paure degli spauracchi superati e inconsistenti. Alle porte c’è certamente una guerra che ci lascerà più impoveriti e più danneggiati, ma anche un tentativo di «colonizzazione» (e uso qui consapevolmente le parole di Papa Francesco) che potrà distruggere non solo la coscienza, ma anche il corpo e le vite dei nostri giovani.
Speriamo che «non [ci] resti che rimpiangere quel kairòs che fu mancato». La posta in gioco è troppo grande, e il bene che vogliamo ai nostri giovani ci spinge ad una azione coraggiosa e virile.
don Gabriele Mangiarotti