Ho letto, in questi giorni, il resoconto delle varie discussioni che si sono tenute nel Consiglio Grande e Generale, a proposito di maternità, a cui sono stati aggiunti vari aggettivi.
Mi auguro che la discussione su un argomento così importante per la vita di un popolo trovi tutti noi desiderosi di dare e chiedere ragioni, perché non accada che la politica prenda surrettiziamente il nostro posto. In questi giorni mi è capitato di leggere un pensiero di Eraclito che mi pare illuminante: «Unico e comune è il mondo per coloro che sono desti, mentre nel sonno ciascuno si rinchiude in un mondo suo proprio e particolare». Pensiero da accostare al celebre quadro di Goya, Il sonno della ragione genera mostri, così da lui stesso commentato: «Frontespizio di quest’opera: quando gli uomini non ascoltano il grido della ragione, tutto muta in visione» e «La fantasia priva della ragione genera impossibili mostri: unita alla ragione è madre delle arti e origine di meraviglie».
C’è l’urgenza di essere «desti», sapendo che quello che è in gioco sono le fondamenta stesse della civiltà, della convivenza e, alla fine, della libertà. Tempo fa Herbert Marcuse, teorico della critica alla società avanzata, nel testo che diede strumenti culturali alla rivoluzione del ’68, scriveva: «Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno di progresso tecnico. In verità, che cosa potrebbe essere più razionale della soppressione dell’individualità nel corso della meccanizzazione di attività socialmente necessarie ma faticose; […] della limitazione di prerogative e sovranità nazionali che impediscono l’organizzazione internazionale delle risorse […]. L’indipendenza del pensiero, l’autonomia e il diritto alla opposizione politica sono private della loro fondamentale funzione critica in una società che pare sempre meglio capace di soddisfare i bisogni degli individui grazie al modo in cui è organizzata. Una simile società può richiedere a buon diritto che i suoi principi e le sue istituzioni siano accettati come sono, e ridurre l’opposizione al compito di discutere e promuovere condotte alternative entro lo status quo.»
Non confondiamo i termini: le organizzazioni mondialiste parlano di «salute riproduttiva» e intendono contraccezione e aborto, si può parlare tra noi di «diritti civili e maternità consapevole» e nascondere che si tratta di consentire l’uccisione di esseri innocenti nel grembo materno e di stravolgimento della sessualità nel rapporto generativo dei figli. Per non parlare dell’orrenda pratica della cosiddetta «gestazione per altri», parola che nasconde la tragedia di quello che si chiama propriamente «utero in affitto», nuova e terribile forma di schiavitù e di asservimento delle donne.
Credo che a tutti noi, qui in Repubblica, sia chiesto di assumere una grande responsabilità nei confronti di ogni uomo, a partire dai più deboli e indifesi. Abbiamo una storia di cui essere fieri che ci ha insegnato ad accogliere gli uomini e le donne in difficoltà, a fare compagnia efficace ed effettiva ai tanti che si sono rivolti a noi per bisogno, e questo anche a partire da esperienze di dolore che avrebbero potuto indurire i nostri cuori. E li hanno spalancati.
Davanti alla devastazione del cuore dei giovani (pensiamo alla tragedia di Corinaldo, alle vittime di una irresponsabilità crudele e di una cultura musicale di morte e trasgressione) sappiamo trovare la forza di proporre il bene e il bello, smettendo di inseguire quello che, spacciato per progresso, non è altro che una nuova forma di schiavitù. Ogni vita è un bene sommo, ogni vita chiede un amore incondizionato, ogni vita ci chiama per nome.
Nella nostra terra è risuonato l’appello stupito di Don Milani, il suo «I care», tradotto, se volete, nel motto di Paolo VI «Ogni uomo è mio fratello», che ha fatto dire al sacerdote di Barbiana che ci vorrebbero migliaia di San Marino, per iniziare un processo di pace e di rispetto per l’uomo, ogni uomo.
E i segni della novità, i germogli di bene sono presenti anche tra noi, e muovono persone a farsi carico di quello che oramai è tradizione chiamare «bene comune». Dalla difesa della vita nascente alla compagnia ai giovani in difficoltà alla condivisione della sofferenza di chi ha visto la morte dei propri figli giovani. Lasciamoci con questa bella citazione di Italo Calvino: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.»
Don Gabriele Mangiarotti su Repubblica Sm
