San Marino. Due parole, a tu per tu, agli spacciatori di indignazione … di Giulio Rossetti

Esiste un luogo comune molto frequentato in questi ultimi anni, che riguarda l’indignazione. È una critica che si ripete sempre uguale, come la musica andina, e che può essere egregiamente riassunta in queste righe di Luca Sofri, di molti anni fa:

A un certo punto qualcuno cominciò a magnificare le virtù dell’indignazione: dapprima aveva forse un senso, a difesa dall’indifferenza e dal quieto vivere. Poi l’indignazione divenne uniforme permanente, bandiera da taschino, tic. Dilagarono le frasi fatte: “Io sono uno che sa ancora indignarsi…” eccetera. L’indignazione si scatenò contro tutto e tutti, perdendo il senso della misura, confondendo gravità e stupidaggini.
Oggi è pieno di gente che si indigna, che si incazza, che alza la voce, contro i pretesi soprusi arbitrali, contro le ZTL, contro i reality show, contro le opere di Cattelan, contro un articoletto a pagina 34, contro il divieto di fumo, e altre mille. Non sono ipocriti, non sono tromboni (anche se spesso il loro rancore è incanalato da certi trombone-à-penser): si incazzano sul serio. Ci stanno male. Dove andremo a finire.
Ci sono dentro un istinto naturale a pensare che ti stanno fregando, e una regressione conservatrice di certe persone di sinistra unita al solido benpensantismo di certe persone di destra. E un conformismo inconsapevole verso alcune opinioni maggiori. E probabilmente molte altre cose. Ma è sempre stato così? La gente è antropologicamente incazzata?

Con toni ed argomenti simili, ormai da tempo, una certa critica politica prende di mira esponenti di Rete e poi, per fare buon peso, l’intero Movimento. L’intento è di dipingere il Male in tutte le sue sfaccettature, e poi, purtroppo per gli autori, viene fuori che il Male è da un’altra parte.

L’indignazione, sotterranea o diffusa, dovrebbe essere da sempre il motore di grandi cambiamenti fra le persone che non hanno altri strumenti possibili, per le quali è spesso l’unico segno di orgogliosa vitalità. Ma sono talmente indignati da non accorgersi che quelli che non si indignano, sono la vastissima maggioranza.

Gli effetti autoriferiti dell’indignazione e la sua vasta inefficienza, sono solo i trucioli sul pavimento della falegnameria, come quelli che si possono trovare accanto ad un bel mobile appena piallato, più spesso accanto ad un tentativo ingenuo e malriuscito che ha trasformato un pezzo di legno in un altro pezzo di legno. Prove tecniche insomma, delle quali ci ostiniamo ad osservare gli effetti meno rilevanti.

L’altro aspetto interessante è che oggi Internet ha un ruolo rilevante nei meccanismi dell’indignazione. Ne ha centuplicato le occasioni e ha spezzato il monopolio della carta scritta. L’indignazione diventa cosmica perché il valore assoluto e la velocità di simili informazioni (e anche delle loro varianti inesatte o intenzionali che sono quasi sempre grandi cazzate di grande successo) è superiore a quello di molte altre notizie e non ha nemmeno bisogno di un emettitore autorevole. Vola veloce di bocca in bocca. Così Internet ha un ruolo significativo anche nella percezione dell’indignazione da parte dei suoi critici. Che spesso assomigliano un po’ a quelli che credono che quanto trovano in rete (nel microscopico spicchio di rete che frequentano) sia una verosimile rappresentazione del mondo.

Da questo punto di vista la critica all’indignazione si accontenta del riassunto superficiale offerto da Internet (o da qualche abile suggeritore), rinuncia a immaginare l’indignazione come fenomeno sociale istintivo alla portata di tutti, dimentica che ciò che oggi imputa alle masse è stato fino a ieri lo sport preferito delle élite informative. Le quali forse aspirano tuttora ad essere spacciatori di indignazione, perché l’indignazione è identitaria e genera il più potente dei feedback.

Tuttavia, i moderni indignati, hanno dimenticato che per dire no, per opporsi in modo efficace e cambiare il mondo non serve solo lo sdegno, ma anche una forza morale, “un’azione di cuore”. Che oggi non si sa più dove stia di casa.

Giulio Rossetti