Oggi parliamo di elezioni americane, visto che finalmente c’è un vincitore. Al netto di possibili ricorsi minacciati dal presidente in carica, Donald Trump. Mi interessa poco ovviamente entrare nel dettaglio, anche perché per quanto appassionato di vicende Usa, cedo la parola a politologi, esperti o presunti tali, che in questo periodo crescono come funghi. Mi si lasci tuttavia un piccolissimo inciso: la più grande democrazia del mondo ha dato uno spettacolo penoso. Dopo giorni ancora non era chiaro chi avesse vinto. E pensare che i candidati erano soltanto due! Insomma alla luce di questo possiamo persino rivalutare l’Italia, dove dopo ogni elezione pare sempre abbiano vinto tutti quanti. Veniamo al tema principale. E’ giusto “silenziare” le tesi del Presidente degli Stati Uniti per quanto ritenute peregrine? I social network infatti a più riprese hanno cancellato alcune posizioni di Trump, bollandole come fake news. In un caso invece, in televisione, il giornalista ha sospeso il collegamento perché la portavoce di Trump avrebbe, senza prove, parlato di brogli elettorali. L’argomento è scottante e delicato. I media da parte loro, lo dice la parola stessa, devono “mediare”, i giornalisti verificata la veridicità di una notizia e ritenuta essa di pubblico interesse, hanno il compito di diffonderla. Essendoci per fortuna la libertà di espressione chiunque può diffondere una particolare notizia, ma quando essa viene data da un giornalista, si presume che a monte vi sia stata una attenta verifica e che dunque tale notizia sia vera e verificata. Ad una prima analisi allora, bene anzi benissimo, avrebbe fatto chi dissociandosi da tesi considerate balzane e prive di fondamento, ha deciso addirittura di censurare il Presidente degli Stati Uniti, mica uno qualsiasi. Ma è proprio così? Alcune correnti di pensiero dicono di sì, altre storcono il naso. In realtà il giornalismo anglosassone è molto, molto diverso da quello italiano ed europeo. In Usa più o meno vale tutto, con una libertà di espressione al cubo. Un sistema dove praticamente chiunque può dire quello che gli pare, anche perché la legge sulla diffamazione funziona in modo profondamente diverso rispetto alla nostra. Si tende – parlando in generale – a replicare piuttosto che censurare o denunciare. Non c’è “l’Ordine” (ci sono le “shield laws”) e l’autorevolezza viene conquistata sul campo e si fa presto a perderla in caso di scivoloni. Giornalista è, chi giornalista fa insomma. Stride allora parecchio che proprio lì si “cancellino” i pensieri di Trump o che gli si tolga la parola, quando magari sarebbe anche più utile e rispettoso della libertà di pensiero lasciarlo parlare, per poi smontare quelli che nel suo caso spesso appaiono oggettivamente come vaneggiamenti senza né capo, né coda, non me ne vogliano i suoi sostenitori. Torniamo in Italia. Se un leader politico – è un esempio – dovesse avere diciamo così, atteggiamenti sopra le righe, sarebbe giusto “silenziarlo”? Personalmente ritengo più utile conoscere come la pensa tale personaggio, della serie: “se lo conosci, lo eviti”. Naturalmente siamo ancora nel campo delle idee, chiamiamole così, “forti”, perché nel caso di reati a quel punto diventa legittimo prendere le distanze in maniera decisa. Un conto è la critica, un altro l’incitamento all’odio, piuttosto che la diffamazione gratuita per intenderci. Detto che per tutti vale il codice penale. Personalmente credo che non si debba praticamente mai – se non in casi assolutamente estremi – arrivare alla censura. C’è un bellissimo libro dal titolo ‘In quelle tenebre’, è stato scritto dalla giornalista Gitta Sereny che ha avuto la straordinaria intuizione che per cancellare il male occorresse prima capirlo. Si recò dunque nella prigione dove era rinchiuso Stangl, il comandante di Treblinka (il campo di sterminio), e lo intervistò per 70 giorni senza censurare nulla di ciò che disse. Qui siamo in un caso estremo. Trovo tuttavia giusto ed auspicabile che ognuno possa dire la sua, salvo garantire un contraddittorio nel quale il giornalista ha il dovere di intervenire in caso di affermazioni false, offensive o comunque fortemente sopra le righe, anche ovviamente togliendo la parola e dissociandosi. Non scordiamoci mai tuttavia, nel caso di esponenti politici, che essi sono eletti dal popolo e che piaccia oppure no, sono di fatto il popolo stesso che attraverso il voto li fa propri rappresentanti e portavoce. Come può allora una società (Facebook, Twitter), piuttosto che un gruppo editoriale (Fox News), togliere la parola a cuor leggero al capo di una nazione? Qui sta il nocciolo del ragionamento e la differenza nei due esempi è enorme e lampante. Nel primo caso l’impressione è di essere in mano ad algoritmi, piuttosto che a non meglio identificati “operatori”. Nel secondo invece bisogna fidarsi della professionalità del giornalista che, ne siamo certi, ha valutato non certo a cuor leggero come comportarsi. Restano, comunque la si giri, diversi interrogativi visto che – lo ribadisco con forza – da un lato c’è in gioco la libertà di espressione e di pensiero, dall’altro la necessità che le notizie che vengono veicolate non siano “fake news” delle quali il giornalista naturalmente non può rendersi complice.
David Oddone