Cari Sammarinesi,
c’è un tempo per ogni cosa, diceva il Qoelet nella sua antica saggezza. C’è un tempo per nascere e un tempo per morire. Ma non c’è un tempo preparato per il dolore di vedere chi ti ha dato la vita svanire, giorno dopo giorno, dietro la nebbia fitta di una memoria che si cancella… E cancella dignità e benessere.
Parliamo del “lungo addio”. Parliamo di Alzheimer, di Parkinson, di quelle malattie che entrano in casa in punta di piedi, quasi scusandosi, e poi finiscono per occupare ogni spazio, ogni respiro, ogni minuto di non poche famiglie sammarinesi.
È un dramma silenzioso, che si consuma dietro le persiane chiuse di tante, troppe nostre abitazioni. Non fa rumore, perché chi lo vive spesso non ha nemmeno più la forza per urlare. È fatto di notti insonni, di mani che tremano, di sguardi smarriti di un padre che non riconosce più il figlio, di una madre che, dopo aver accudito per una vita, torna bambina e ha bisogno costantemente aiuto.
Ma oggi, in questo nostro 2025, oltre al dolore straziante del cuore, nelle case dei sammarinesi è entrato un ospite ancora più inquietante: il terrore del portafoglio.
Chi ha qualche capello bianco ricorderà con nostalgia un’altra San Marino. Ricorderà quella Repubblica dove la parola “solidarietà” non era uno slogan da campagna elettorale, ma una rete di protezione fisica, reale, che non lasciava cadere nessuno. Erano tempi in cui lo Stato era un padre presente: se cadevi, la comunità ti rialzava. La sanità arrivava ovunque, gratuitamente, celermente. Sentirsi sammarinesi significava avere la certezza granitica che, nel momento del bisogno, non saresti mai rimasto solo.
Oggi, quella rete ha buchi larghi. Troppo larghi. E chi ci cade dentro rischia di non rialzarsi più.
Ci dicono che il sistema c’è. Ci ripetono che “nessuno è abbandonato”, che esiste l’indennità di accompagnamento, che esiste l’eccellenza del Casale La Fiorina.
Vero. Ma proviamo, per un attimo, a toglierci gli occhiali del burocrate e a guardare la realtà con gli occhi gonfi di lacrime di chi deve far quadrare i conti a fine mese.
Prendiamo il caso, sempre più frequente, del ricovero in struttura.
Sulla carta, il regolamento sembra equo, quasi perfetto: se la famiglia non ce la fa a pagare la retta intera, lo Stato interviene. Come? Trattenendo la pensione del ricoverato e mettendo la differenza.
Sembra giusto, vero? Teoricamente sì, ma concretamente? Assolutamente no. È qui che il sistema mostra la sua rigidità crudele, cecità di fronte alla vita vera.
Immaginiamo una coppia di anziani, una storia come tante sul nostro Titano. Lui, il marito, si ammala gravemente. Non può più stare a casa, serve il ricovero. Lui ha una pensione dignitosa, frutto di quarant’anni di lavoro in fabbrica o in ufficio, quella pensione che fino a ieri sosteneva l’intera famiglia. Lei, la moglie, ha una pensione minima, o magari sociale. Vivono in affitto – perché non tutti a San Marino hanno ereditato ville – e pagano 600 euro al mese per un appartamento modesto. Più le bollette, che sono esplose per tutti. Più la spesa.
Se il sistema, applicando freddamente la norma, assorbe l’intera pensione del marito per pagare la retta del Casale, cosa resta a quella donna che rimane a casa, sola e anziana?
Le resta la sua minima, che basta appena a coprire l’affitto. E per mangiare? Per riscaldarsi d’inverno? Per comprare le medicine per i suoi acciacchi?
Nulla.
Abbiamo creato un meccanismo perverso che, per curare un malato, riduce letteralmente alla fame il coniuge sano. Una “guerra tra poveri” innescata dalla burocrazia, dove l’assistenza diventa una coperta tragicamente corta: se copri la testa del malato, scopri i piedi della famiglia, lasciandola al gelo.
E non va meglio a chi decide, con amore immenso e sacrificio sovrumano, di tenere il malato a casa, nel suo letto, tra le sue cose.
Certo, lo Stato eroga l’indennità di accompagnamento. Sono qualche centinaia di euro. Nessuno ci sputa sopra. Ma siamo onesti: di fronte a un malato che va accudito, coccolato e vigilato 24 ore su 24, sette giorni su sette, a Ferragosto, a Natale, a Pasqua, che necessita di sorveglianza h24, quegli euro sono una goccia nel mare.
Una badante in regola, a San Marino, tra stipendio, contributi e ratei, costa alla famiglia circa 1.800, 2.000 euro al mese, più vitto e alloggio.
Quel “buco” che si riapre ogni mese chi lo copre? Lo copre chi ha i risparmi di una vita. E quando i risparmi finiscono? E chi i risparmi non li ha mai avuti?
Succede che le famiglie crollano. Succede che figli cinquantenni si rovinano per aiutare i genitori. Succede che si rinuncia all’assistenza professionale e ci si immola, ammalandosi a propria volta.
Ecco perché dico, con la voce rotta dall’emozione, ma ferma nell’appello, che l’intero sistema va riformato radicalmente. Non bastano piccoli aggiustamenti, serve una rivoluzione etica.
Abbiamo uno strumento formidabile che teniamo chiuso nel cassetto come un oggetto misterioso: l’ICEE (l’indicatore della condizione economica).
L’ICEE non deve servire solo a fare le pulci per la retta dell’asilo. Deve servire a fotografare la verità dolorosa delle famiglie. Deve servire a dire: “Attenzione, se togliamo questa pensione per la retta de Il Casale, la moglie non può più vivere”.
Il calcolo degli aiuti deve partire da qui: dal reddito residuo disponibile e dal capitale… Dall’ICEE quindi.
Nessuna retta deve essere pagata se prima non si è garantita la sopravvivenza dignitosa del coniuge che resta a casa. Nessun anziano deve essere lasciato con la sola indennità base se il suo reddito familiare (certificato ICEE) non gli permette di pagare una badante.
Se sei sotto una certa soglia, lo Stato non deve darti una mancia: deve pagarti l’assistenza. Deve dirti: “Riposati, pensiamo noi a tuo marito per almeno mezza giornata, o ti aiutiamo noi a pagare chi lo fa”.
Ma per fare questo, serve anche il coraggio della razionalizzazione, il coraggio di essere giusti anche quando è scomodo.
Dobbiamo dirci la verità: l’indennità “a pioggia”, uguale per tutti, è un lusso che non possiamo più permetterci se vogliamo essere efficaci.
Si tolga il diritto all’accompagnamento a chi supera un certo ICEE – ovviamente alto – laddove quelle poche centinaia di euro non spostano di una virgola la qualità della vita o la capacità di cura di una famiglia benestante.
Ogni euro risparmiato lì non deve tornare nel calderone del bilancio, ma deve essere destinato in maniera sacra e vincolata ai reali bisogni di chi non ce la fa. Togliere il superfluo a chi ha tanto per dare l’indispensabile a chi non ha nulla: non è forse questa la base della vera giustizia sociale?
Una Repubblica che vanta millenni di storia e libertà, fondata da un Santo che accolse i perseguitati, non può accettare che la qualità dell’ultimo miglio della vita dei suoi cittadini dipenda dal saldo del conto in banca. Non può permettere che per assistere un padre si condanni alla miseria una madre e i figli.
Quella solidarietà antica, che ci ha resi fieri nel mondo, deve tornare ad essere sostanza, pane quotidiano, certezza. Non lasciamo che diventi solo un ricordo sbiadito, perso nella nebbia, proprio come la memoria di qualche nostro concittadino.
Marino d’Arbe













