Un tempo, nell’ordinamento giudiziario sammarinese, era prevista “la doppia conforme”. In pratica, se i primi due gradi di giudizio producevano lo stesso risultato, il processo era finito. Ma se c’era una qualche difformità tra le due sentenze, si ricorreva in Terza Istanza. Oltre a questo, in caso di ulteriore discordia tra la parti, c’era la “restitutio in integrum”. La richiesta si presentava alla Reggenza, la quale, avvalendosi di consulenti qualificati, poteva decidere il ripristino alla condizione originale, cioè prima del processo, e ricominciare tutto da capo. Ci sono processi famosi, celebrati nella seconda metà del Novecento, che hanno espletato tutti questi gradi di giudizio.
Un tempo c’era anche la “querela nullitatis” che poteva essere esercitata anche autonomamente rispetto agli ordinari mezzi di impugnazione.
Nella legge qualificata 55/2003 era ancora previsto il ricorso per “restitutio in integrum” insieme agli altri gradi di giudizio. Poi, nel vortice di riforme – non tutte azzeccate – non se n’è saputo più nulla. Almeno per quanto ne sappiamo noi poveri mortali, che non abbiamo le competenze tecniche dei magistrati, né dei principi del foro. E neanche quelle di qualche politico attuale, che si diverte a riempire le pagine dei giornali affermando che la recente legge di riforma del processo penale, appena approvata dalla Commissione I: “… dispone l’introduzione di una procedura del tutto nuova e mai prevista dall’ordinamento giudiziario sammarinese, quella del Giudizio di Terza Istanza con la possibilità di riformare completamente le sentenze di secondo grado, fino a prevedere una nuova formula che può modificare quindi gli effetti anche della sentenza di primo grado”.
La nuova legge, invece, appare come un ritorno ab origine, cioè alla sapienza degli antichi legislatori e alle dinamiche del giusto processo. Ma il ragionamento – sbagliato – viene usato per tirare fuori ancora una volta il “processo Mazzini” sul quale le attuali opposizioni, RF e Libera, non hanno mai lesinato i loro strali più feroci, prima alimentando la gogna mediatica, poi accusando il governo di volerlo affossare, grazie a questo blitz e alle altre riforme avvenute in questa legislatura.
Il problema vero è da tutt’altra parte, cioè in un intervento giudiziario (il processo Mazzini) voluto dalla politica per lasciare strada libera all’affermazione di una nuova classe dirigente. Che progressivamente è andata ad occupare con i suoi uomini (e donne) il sistema finanziario, oltre a quello istituzionale e giudiziario.
Ce lo ha raccontato la Commissione di inchiesta sulle banche, che ha messo in luce “il progetto delinquenziale” di occupazione della Repubblica e di spolpamento delle risorse. Pagine e pagine di nomi stranieri, per lo più afferenti ad un gruppo lussemburghese, che aveva sul Titano i suoi fedelissimi pronti a garantire leggi e decreti a copertura delle loro malefatte. In queste pagine abbiamo scoperto come il capo del pool inquirente del processo Mazzini fosse un uomo di punta della “cricca”.
È lo stesso giudice che RF continua a difendere, nonostante sul suo capo pendano accuse pesantissime, tra cui abuso di autorità, rivelazione del segreto istruttorio speciale, tentata concussione e falsa testimonianza.
È stata una bella doccia fredda per chi, nel 2013, aveva ravvisato in questo giudice il “Di Pietro del Titano”. Cioè colui che era riuscito a fermare un’accozzaglia di corrotti e corruttori che per anni avevano fatto – e guadagnato – quello che volevano. Ma un processo è fatto di prove su reati previsti nel Codice Penale. In quel caso, le indagini furono a dir poco approssimative (bastavano i titoli sui giornali a far presa sull’opinione pubblica); le condotte contestate non erano previste come reato all’epoca dei fatti (lo afferma perfino L’Informazione, che è tutto dire); le confische avrebbero dovuto essere eseguite laddove fosse stata accertata la provenienza illecita, e invece sono stati confiscati anche beni provenienti da patrimoni immobiliari frutto di eredità tra generazioni. Insomma, un pasticcio immane, come si evince anche dalla sentenza di primo grado che, perfino in Consiglio è stata definita “un romanzo” in quanto non presenta “uno straccio di prova”.
Ma la gogna mediatica sul processo Mazzini continua imperterrita nel maldestro tentativo di dirottare l’attenzione del pubblico sui politici di una volta e far dimenticare quelli più recenti, cioè quelli che hanno partecipato alla cricca.
Sia ben chiaro: lungi da noi il tentativo di “assolvere” i famosi Gatti, Podeschi, Stolfi e loro accoliti. Non siamo giudici, né poliziotti, né troviamo giusto urlare ogni giorno al “Crucifige!” Per questo ci sono i tribunali, che devono operare sulle base di prove inoppugnabili. Se non le hanno trovate, o non le hanno neanche cercate, questo è un problema di mancata giustizia sia verso gli indagati, sia verso i cittadini.
Ma se questo è un “processo politico” come sembrano dimostrare le vicende venute alla luce con la Commissione di inchiesta, allora c’è un giudizio storico e un giudizio etico a cui i cittadini si possono appellare, questo è nel loro pieno diritto. E possiamo essere certi che ogni cittadino si è fatto un’idea molto precisa sia dei personaggi, sia delle loro storie, non solo quelli di 10 o 20 anni fa, ma anche di quelli di due o tre anni fa che oggi siedono ancora in Consiglio e fanno la morale. Soprattutto non vogliono una giustizia che funzioni, perché forse hanno molto da nascondere.
a/f