Nel 2021 siamo ancora a parlare di pena di morte e di Paesi che la praticano. L’ultimo omicidio non è avvenuto in qualche regione del mondo liberticida e totalitaria, ma negli occidentalissimi e democraticissimi Stati Uniti. Nazione che sta balzando un po’ troppo spesso agli onori delle cronache e non proprio per fatti lusinghieri. E’ così stata uccisa con iniezione letale Lisa Montgomery, la prima donna a essere messa a morte in 70 anni. La sua esecuzione era prima stata sospesa per consentire una perizia psichiatrica: una sospensione che aveva suscitato speranze in quanti nel mondo si oppongono alla pena capitale. 52 anni, era stata riconosciuta colpevole di un delitto efferato: l’uccisione nel 2004 di una ragazza incinta, la 23enne Bobbie Jo Stinnett, alla quale ha estratto con un coltello il feto, portato via come se fosse suo figlio, lasciandola morire dissanguata. Oggetto di gravissimi abusi in famiglia da bambina, Montgomery era ritenuta gravemente malata di mente. E dopo la fine, imposta da Donald Trump, della moratoria sulla pena di morte federale, proprio su questo aspetto si è incentrato il ricorso dei suoi avvocati, accolto da un giudice dell’Indiana, per una nuova perizia psichiatrica. Poi il via libera all’esecuzione, in ottemperanza a quanto già deciso dalla Corte Suprema. Dicevamo un delitto sanguinoso e ripugnante. Non è possibile neppure immaginare che cosa abbia provato la vittima e il dolore che patiscono i suoi famigliari ed amici. Quando mi trovo a parlare di pena di morte con conoscenti che non la pensano come me, obiettano tutti quanti allo stesso modo: “Pensa se qualcuno stuprasse tua figlia”. Ecco, qui sta il punto. Se qualcuno stuprasse mia figlia vorrei strappargli il cuore con le mie mani. Vorrei che morisse fra atroci sofferenze, altro che iniezione! Ed è proprio per evitare tale barbarie, per fermare l’impulso immediato, che uno Stato ha il dovere di intervenire. Una società che vuole dirsi civile non può sostituirsi a Dio e togliere la vita anche al più spregevole degli individui. Servono regole generali che non devono tenere conto della rabbia del momento o dello stato d’animo del singolo. Penso inoltre che la prospettiva di stare in carcere a vita e riflettere sulle proprie condotte, possa forse essere una punizione ancora peggiore per chi si macchia di crimini quali l’omicidio. E’ molto importante però che in particolari casi, quali ad esempio le uccisioni selvagge e disumane come quella appena descritta, il colpevole non possa e non debba godere di uscite premio o privilegi. Altro discorso andrebbe fatto se l’imputato è realmente persona disturbata e incapace di intendere e di volere. In questo caso il colpevole va messo in condizione di non nuocere più agli altri, prendendo ogni possibile contromisura. Concludo questo brevissimo ragionamento sulla pena di morte ricordando come essa, dati alla mano, non rappresenti neppure un deterrente ed invece come ricorrano numerosissimi casi di errori giudiziari. Ad alcuni di questi non è stato possibile porre rimedio perché quando è emersa l’innocenza del condannato, era già stato giustiziato. Immagino non sia popolare dirlo, ma preferisco 100 colpevoli fuori, piuttosto che un solo innocente dietro lo sbarre.
David Oddone