Il comunicato diffuso dalla Consulta per l’Informazione sulla vicenda del processo per incidente mortale celebrato a porte chiuse è la prova concreta di un problema sistemico che va ben oltre la singola polemica: la Consulta non dovrebbe nemmeno esistere, e lo dimostra il modo in cui interviene, sempre più spesso, come attore politico, impegnata a difendere a testa bassa le impuntature dei suoi aderenti, giornalisti e operatori della stampa, anche quando queste impuntature sono del tutto infondate, come nel caso dell’ultima posizione assunta dal suo segretario Antonio Fabbri, da loro difeso senza il minimo dubbio che possa avere torto, come ce l’ha.
La cosa non sorprende, considerando che il segretario della Consulta è lo stesso giornalista che si lamenta pubblicamente della decisione del giudice cioè Antonio Fabbri.
Un conflitto di interessi grande come una casa, così evidente che, in qualsiasi Paese europeo, renderebbe impossibile anche solo firmare un comunicato.
In Europa, quella vera, quella che molti oggi simpatizzanti dell’Accordo di Associazione citano quando fa comodo non esistono Consulte, Ordini, Consigli, Albi o corporazioni che decidono chi possa o non possa essere giornalista. Semplicemente non esistono.
E per un motivo molto semplice: la libertà di stampa è una libertà, non una professione regolamentata.
Lo ribadisco: non esiste in nessun Paese europeo una legge che disciplini l’ingresso nella professione giornalistica, tranne che in Italia dove l’ordine è stato istituito ai tempi del fascismo ed aveva l’obiettivo di controllare i giornalisti e la libera stampa.
Il giornalista in Europa come in America lo può fare chiunque: chi scrive, chi documenta, chi indaga, chi pubblica e se sbaglia paga. È così dal dopoguerra. È così ovunque.
A San Marino, invece, si è voluto creare un sistema corporativo in cui alcuni giornalisti pretendono di “custodire” la professione come fosse una bottega medievale. Un’anomalia culturale e istituzionale che andrebbe definitivamente smantellata, altro che una garanzia.
La stessa Sentenza n. 28/2023, che mi riguarda direttamente, lo conferma: dopo aver restituito nel 2018 con piena soddisfazione la tessera di pubblicista, e benché già dal 2012 fossi giornalista professionista, sono stato accusato di esercizio abusivo della professione e poi assolto con formula piena dal Tribunale di San Marino. La sentenza è stata chiarissima: “L’attività di cronaca e informazione non è riservata agli iscritti alla Consulta e non costituisce esercizio abusivo.”
Fine della discussione.
Il comunicato della Consulta, diffuso ai media nel pomeriggio di ieri, ruota attorno a tre affermazioni: che “non vi fossero motivi” per chiudere l’udienza; che sarebbe stato leso il “diritto della collettività a essere informata”; e che trasparenza e diritto di cronaca sarebbero stati addirittura “sacrificati”.
Si tratta, a mio avviso, di affermazioni infondate o comunque fuorvianti.
Ed è utile spiegare, in modo semplice e lineare, perché.
Primo punto: “non vi erano motivi”. Stabilire se vi fossero o meno motivi non spetta alla Consulta. La parte civile, e aggiungo, anche la parte prevenuta, ha chiesto la riservatezza. Il giudice ha valutato la richiesta, ha motivato, e ha adottato un provvedimento previsto espressamente dalla legge. Tutto nell’ambito delle procedure corrette e ordinarie.
Secondo punto: il “diritto della collettività a essere informata”. Questo diritto non è stato toccato. Gli atti processuali esistono, la sentenza sarà pubblica, la cronaca si potrà fare come sempre. Non c’è nulla di nascosto o occultato. Semplicemente, non si può trasformare un processo per un incidente mortale in uno spettacolo aperto al pubblico come se fosse un’arena.
Terzo punto: la presunta “trasparenza sacrificata”. Anche questa è un’affermazione infondata. La trasparenza non si misura dal fatto che chiunque possa entrare in aula. La trasparenza è garantita dagli atti, dalle motivazioni, dalle sentenze accessibili.
La pubblicità delle prove non coincide con lo spettacolo del dibattimento. Ed è qui che arriva la parte più grave del comunicato: si invoca la “trasparenza” senza nemmeno ricordare che la legge sulla privacy del 2023 stabilisce chiaramente che la citazione pubblica sui media di minori è possibile solo con il consenso esplicito degli interessati. In particolare: per i minori sopra i 16 anni è necessario il loro consenso diretto; per quelli sotto i 16 anni serve il consenso di chi esercita la patria potestà. Nel caso di un incidente mortale, è normale che vengano citati gli eventuali figli della vittima e del prevenuto oppure minori presenti nella dinamica familiare oppure minori coinvolti indirettamente (es. per testimonianze, contesto, background). Non importa poi se un minore venga citato o meno, basta che potenzialmente possa esserlo e se sono le famiglie a richiederlo bene ha fatto il giudice a celebrare il processo a porte chiuse.
Anche se non ci fossero minori, ed in questo caso pare ci fossero, la legge prevede ugualmente la tutela della dignità delle parti ovvero familiari, conviventi, congiunti, persone vulnerabili, soggetti fragili. In un processo per incidente mortale, la tutela della dignità dei familiari è un motivo sufficiente, autonomo e indipendente per disporre la chiusura dell’udienza.
Non è un dettaglio, né un’opinione: è la legge, non una libera interpretazione del giornalista Antonio Fabbri né una nota stampa della Consulta.
Sostenere che “la collettività deve controllare la giustizia assistendo alle udienze” non è trasparenza: è una tentazione populista e profondamente anti-istituzionale. La giustizia è pubblica negli atti e nelle sentenze, non nelle platee. Il processo non è uno spettacolo.
La Consulta sostiene invece che, per garantire la democrazia, bisogna mettere il microfono in aula. Un’idea che non esiste in nessun Paese europeo. È evidente: questo non è un comunicato per difendere la trasparenza. È un comunicato per difendere un giornalista, il loro segretario guardacaso, che voleva stare pervicacemente in aula dove la legge non glielo permetteva.
E la Consulta, anziché mantenere un ruolo super partes, si schiera. Sempre dalla stessa parte. Sempre con gli stessi nomi. Questa non è una garanzia: è una lobby. E una democrazia non ha bisogno di lobby travestite da organismi istituzionali.
La Consulta proprio con comunicati come questo, rappresenta solo una categoria che difende esclusivamente sé stessa e i propri iscritti. A testa bassa pur avendo palesemente torto.
In Europa questo modello è stato superato da decenni. In Europa non esistono Consulte né Ordini dei giornalisti sennò per motivi sindacali. In Europa l’attività giornalistica è esercitata liberamente, non dietro autorizzazione di un organismo di categoria. San Marino, se vuole dirsi moderno, deve allinearsi. E la vicenda di questi giorni lo dimostra una volta per tutte: la Consulta per l’Informazione è un corpo estraneo alla democrazia liberale.
Ed è tempo che venga abolita.
Marco Severini – Direttore GiornaleSM
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