Nei giorni scorsi il Corriere di Rimini in un puntuale articolo a firma della collega Carla Dini, ha raccontato il progetto “Musica dentro”, ideato dalla dottoressa Manuela Carratta. Un titolo che già suscita emozioni forti. L’idea è tanto semplice, quanto innovativa. Portare le note all’interno del carcere di Rimini, per dare la possibilità ai detenuti di approfondire l’arte e perché no, trovare un modo per guardarsi dentro e chissà, iniziare quel percorso di riabilitazione e reinserimento nella società, al quale dovrebbero mirare gli istituti di detenzione. La musica parla una lingua universale. Unisce, aiuta la socialità. Tocca la nostra anima. Una esperienza che vale assolutamente la pena di essere raccontata, anche perché la dottoressa Carratta è particolarmente legata a San Marino, è molto conosciuta in Repubblica ed è spesso presente sul Monte per motivi di lavoro. Approfittiamo allora della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne – appena trascorsa e che non dovrebbe limitarsi a un unico giorno – per ascoltare il punto di vista di chi, spesso e volentieri, la violenza la deve anche guardare negli occhi.
Dottoressa Carratta, può raccontarci come la sua esperienza quale medico dei detenuti nel carcere di Rimini ha influenzato il suo percorso?
“La mia esperienza nel carcere di Rimini è stata fondamentale per il mio sviluppo sia come medico che come specialista in medicina estetica. Ha permesso di coltivare la mia passione per la clinica e svolgere un ruolo umanitario, bilanciando la medicina estetica con un diverso ma altrettanto significativo ramo della medicina. Il carcere è stato una palestra per allenare la pazienza, la calma, e l’uso empatico della voce del cuore”.
In che modo il carcere le ha insegnato a gestire situazioni complesse e ad affrontare pazienti in contesti difficili?
“Il carcere è stato molto più di un luogo di lavoro. È stato un’opportunità di crescita personale, insegnandomi a rispondere con gentilezza anche alle situazioni più complesse e delicate. La palestra di vita che ho trovato tra le mura ha sviluppato in me una capacità di comprensione e gestione delle emozioni che si rivela essenziale nella pratica medica”.
Parliamo del progetto “Musica Dentro”. Come è nato e qual è stato il suo impatto sulla vita dei detenuti?
“Il progetto ‘Musica Dentro’ è nato dalla consapevolezza che il paziente in carcere richiede qualcosa che va al di là della semplice cura fisica. La musica, in particolare il pianoforte, è diventata un mezzo salvifico per riportare luce nelle loro vite. Ho sempre ritenuto di avere il dovere, in qualità di medico, di gestire la cura della persona a tutto tondo. E se è vero che siamo fatti di corpo, mente e spirito, mentre la medicina tradizionale ferma l’attenzione sui primi due, lascia quasi sempre indietro la dimensione animica. Nell’attuale società occidentale probabilmente manca spesso la sensibilità a questa tematica, che non rientra in maniera sistematica nella nostra cultura.
Ho compreso attraverso la mia esperienza che per nutrire lo spirito bastano a volte azioni e pensieri semplici. La musica può diventare uno strumento per coltivare le parti più nobili della nostra personalità. E la crescita personale necessita che appunto corpo mente e spirito siano in accordo. Con il progetto ‘Musica Dentro’ ho voluto offrire ai miei pazienti in detenzione uno spunto di riflessione per cercare ‘accordare’ appunto queste tre dimensioni.
Sono fiduciosa che ai più questo messaggio arriverà forte e chiaro, anche perché stiamo parlando di una realtà in cui si ha sete di umanità, di rispetto, di redenzione.
E se a qualcuno il messaggio più profondo non arriverà, avrà ascoltato semplicemente della buonissima Musica”.
Può raccontare un momento significativo nel contesto di “Musica Dentro”?
“Un momento indescrivibile è stato quando gli accordi del pianoforte hanno abbracciato i corridoi e le celle del carcere. Vedere la reazione dei detenuti, l’attenzione e la commozione, è stato un segno tangibile dell’effetto positivo del progetto. Mi sento di aver già raggiunto un obiettivo importante, portando del bello e del buono là dove la dignità sembra essere terminata”.
Come evolverà il progetto in futuro?
“Gli obiettivi futuri includono l’espansione dei corsi di musica e delle sedute d’ascolto, offrendo opportunità di crescita e rifioritura ai detenuti. Vorremmo continuare a portare la bellezza della musica in luoghi inaspettati, alimentando la speranza e la dignità umana. Mi faccia dire anche un’altra cosa che mi sta particolarmente a cuore”.
Prego.
“Vorrei ringraziare la maestra di piano Miriam Fabbri e il maestro Carlo Pari. Poi Viola Carando, la responsabile dell’area educativa e naturalmente la Direttrice del carcere Palma Mercurio. E’ stato un lavoro di squadra dove ognuno ha fornito il proprio prezioso contributo, senza il quale non sarebbe stato possibile realizzare il progetto”.
Vorrei chiudere con un pensiero sulla Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, che si è celebrata il 25 novembre. Come ho scritto nell’incipit per via del suo lavoro lei la violenza si trova spesso a guardarla negli occhi. E’ così?
“La violenza contro le donne è un male ancora profondamente radicato. Basta aprire i giornali degli ultimi giorni. E, giornali a parte, gli episodi di violenza tra le mura domestiche sono tanto diffusi attorno a noi, quanto taciuti.
Purtroppo. Sto parlando di violenza fisica, ma anche della sottile violenza psicologica che a volte è capace di rinchiudere in prigioni dorate. Quella più difficile da riconoscere anche per chi ne è vittima. Chi usa violenza non ha compiuto quel percorso di evoluzione che gli possa permettere di utilizzare altri strumenti per esprimere un forte disagio.
Ho incontrato nel mio percorso tante persone con questa problematica: in carcere scene di violenza etero o auto inferta sono, possiamo dire, quotidiane. Possiamo parlare di indole violenta, di fattori culturali, sociali, ambientali che plasmano un essere umano man mano che vive determinate esperienze. Di una cosa sono certa: gli individui che compiono atti violenti necessitano di essere instradati, di intraprendere un percorso educativo rivolto alla gestione delle emozioni e all’introspezione.
Certo mi metto nei panni di chi la violenza la subisce. Della vittima. Che va tutelata. Ma d’altra parte credo non esistano persone cattive, bensì persone con disagi, a volte mostruosi, che vanno anch’esse protette.
Una cosa che ho imparato in carcere è a non puntare il dito contro il colpevole. Ogni cosa può essere vista da una diversa prospettiva, anche la situazione più dolorosa.
La violenza verso una donna, verso un uomo, verso se stessi, va guardata in faccia, affrontata non taciuta, accolta e, nel finale migliore, lasciata andare”.
David Oddone
(La Serenissima)