La sera prima di essere assassinato, Walter Tobagi presiedeva un incontro al Circolo della stampa di Milano. Si discuteva del “caso Isman” e dunque della libertà di stampa, della responsabilità del giornalista di fronte all’offensiva delle bande terroristiche. Il dibattito fu piuttosto agitato e l’inviato del Corriere fu fatto oggetto di ripetute aggressioni verbali.
Tobagi venne ucciso a Milano in via Salaino, alle ore 11 del 28 maggio 1980, con cinque colpi di pistola esplosi da un “commando” di terroristi di sinistra facenti capo alla Brigata XXVIII marzo (Marco Barbone, Paolo Morandini, Mario Marano, Francesco Giordano, Daniele Laus e Manfredi De Stefano), buona parte dei quali figli di famiglie della borghesia milanese. Due membri del commando in particolare appartengono all’ambiente giornalistico: sono Marco Barbone, figlio di Donato Barbone, dirigente editoriale della casa editrice Sansoni (di proprietà del gruppo RCS), e Paolo Morandini, figlio del critico cinematografico Morando Morandini del quotidiano Il Giorno.
Trentotto anni fa, il 9 maggio 1978 a Roma, in via Caetani, il ritrovamento del corpo di Aldo Moro, politico italiano della Democrazia cristiana, più volte presidente del Consiglio, sequestrato e poi ucciso dai terroristi delle Brigate rosse.
Nel 2007 il Parlamento italiano ha riconosciuto il 9 maggio “Giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice”, che ricorre oggi.
Il mio ricordo va al collega Tobagi. Un uomo che ha pagato con la vita il suo impegno quale inviato sul fronte del terrorismo e di cronista politico e sindacale.
Mi piace citare Giampaolo Pansa: “Tobagi sapeva che il terrorismo poteva annientare la nostra democrazia”.
Eppure fra i suoi carnefici c’erano anche proprio coloro che avrebbero dovuto dare impulso alla resistenza di Tobagi contro quel tarlo che stava mangiando la nostra libertà, con la scusa di difenderla.
Anche oggi i giornalisti sono chiamati a combattere contro chi vorrebbe imporre il pensiero unico. Contro chi vorrebbe mettere il bavaglio al diritto insopprimibile di chiedere e cercare la verità, anche quella alternativa alla narrativa corrente.
Certamente mai come ora, con la guerra in corso, abbiamo a che fare con una linea sottile che divide l’importanza di un contraddittorio e la necessità di dare spazio a ogni voce, dalla propaganda e la disinformazione.
Ed è proprio in questo momento che bisogna essere più vigili, cercando di non diventare strumento dei poteri forti e al contempo scavare per comprendere le ragioni degli uni, e degli altri.
Un modus operandi che dovrebbe essere utilizzato dalle redazioni locali più piccole, fino ad arrivare agli inviati sui campi di battaglia.
Concludo questa brevissima riflessione sulle stragi, con le parole del segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres “inorridito” dall’attentato a una scuola nell’Ucraina orientale, che ha ucciso 60 persone. Guterres “riafferma che i civili e le infrastrutture civili devono essere sempre risparmiati in tempo di guerra”. L’attacco, ha aggiunto, “ci ricorda ancora una volta che in questa guerra, come in tanti conflitti, sono i civili a pagare il prezzo più alto”.
E’ vitale a questo punto, dopo oltre due mesi di conflitto, allargare la discussione su cosa l’Italia e San Marino possano fare per agevolare un processo negoziale.
Mentre quotidianamente vengono snocciolati il numero di morti e feriti, rischiamo di assuefarci ad una sorta di normalità che non possiamo e non dobbiamo accettare.
Ce lo hanno insegnato gli anni di piombo, ce lo riporta alla mente la ricorrenza odierna: la guerra di oggi, come il terrorismo di ieri, possono annientare la nostra libertà.
David Oddone