San Marino. La nave dei folli, ovvero la morte come spettacolo e come diritto … di Don Gabriele Mangiarotti

Ho letto in Platone, Repubblica VI libro, questo pensiero: “Immagina che su molte navi o su una sola accada un fatto di questo genere: da una parte un capitano che supera per statura e forza fisica tutto l’equipaggio, ma è un po’ sordo, ha la vista corta ed è provvisto di scarse conoscenze nautiche, dall’altra i marinai che litigano tra loro per il governo della nave, poiché ciascuno è convinto di dover stare al timone anche se non ha mai imparato l’arte della navigazione e non è in grado di indicare né il proprio maestro né il periodo in cui l’ha appresa, e per giunta sostengono che quest’arte non si può insegnare, anzi sono pronti a fare a pezzi chi dica il contrario.

Essi stanno sempre attorno al capitano, pregandolo e facendo di tutto perché affidi loro il timone, e se talvolta riescono a persuaderlo altri invece che loro, li uccidono o li gettano giù dalla nave, e dopo aver reso innocuo il buon capitano con la mandragora, con l’ebbrezza o in qualche altro modo, si mettono al comando della nave consumando le provviste e navigano tra bevute e banchetti, com’è logico attendersi da persone simili.

Inoltre lodano con i nomi di marinaio, timoniere ed esperto di nautica chi è bravo ad aiutarli nel comando usando sul capitano la persuasione o la forza, mentre biasimano come inutile chi non si comporta in questo modo; e non hanno neanche idea che il vero timoniere deve preoccuparsi dell’anno, delle stagioni, del cielo, delle stelle, dei venti e di tutto quanto concerne la sua arte, se realmente vuole essere un comandante, anzi sono convinti che, senza sapere né in teoria né in pratica come si guida una nave a prescindere dal volere della ciurma, sia possibile imparare quest’arte nel momento in cui si prende in mano il timone.

Se sulle navi accadessero fatti del genere, non pensi che il vero timoniere sarebbe chiamato dall’equipaggio di navi così combinate acchiappanuvole, chiacchierone e inutile?”

Immagine drammaticamente pertinente, di fronte alla morte per suicidio assistito di Daniele Pieroni, avvenuta il 17 maggio in provincia di Siena: «Erano presenti, su base volontaria, due dottoresse e un medico legale dell’Asl. Accanto all’uomo c’erano anche Felicetta Maltese, coordinatrice della Cellula toscana dell’Associazione Luca Coscioni, il fiduciario di Daniele, le badanti e i familiari. Alle 16:47 Daniele ha attivato il dispositivo a doppia pompa infusiva e alle 16:50 ha smesso di respirare.» Poche parole, queste, per raccontare la fine di un uomo che ha scelto la morte, di fronte a una sofferenza per lui ritenuta insopportabile.

Non sta a noi entrare nel cuore di quest’uomo, nel suo dolore e nella sua disperazione , per un gesto compiuto, dicono le cronache, «con lucidità e serenità».

Ma qualche riflessione dovremo pur farla, se come uomini siamo di fronte alla realtà e tutto quanto accade ci interpella. Basta accedere ai social o accendere la tv o ascoltare la radio per accorgerci dell’interesse che questo caso sta suscitando, visto che si passa da un progetto di legge a un evento reale e drammatico (e comunque vorremmo capire il perché della breve distanza temporale tra il fatto e il suo racconto, quasi a preparare il modo più appropriato di comunicarlo, o di sfruttare la notizia per ragioni che ci sfuggono pur se forse facilmente intuibili).

Penso che questa sarà l’occasione per confrontarci sull’argomento, sfuggendo da considerazioni sentimentali e da posizioni ideologiche.

Lo faccio ponendo due domande: «Se accettiamo che lo stato riconosca come diritto la richiesta di un uomo di essere ucciso, non sarà che l’ordinamento giuridico smarrirà la sua ragione d’essere, quella di proteggere chiunque dalla aggressione arbitraria e distruttiva?», che è come dire che il riconoscimento dell’eutanasia e del suicidio assistito come diritto porta inevitabilmente a una società che rinuncia ai principi indiscutibili (si direbbero anche non negoziabili) come la promozione del bene, il riconoscimento del valore assoluto di ogni persona, il rifiuto di procurare danno al prossimo, ecc.?

Di fronte alla sofferenza dell’uomo, non vale di più il grande principio enunciato da Giovanni Paolo II «Accanto a un uomo che soffre, ci vuole un altro uomo»?, che significa che non è la compagnia all’atto della morte che conta, quasi fosse uno spettacolo, ma una condivisione costante, fino alla cura del dolore (approfondendo la terapia delle cure palliative, testimoniata da medici e associazioni che si prendono «cura» del malato).

Come cristiano penso che la storia di tanti credenti sia una via percorribile con più verità e carità che la strada della morte (e scrivo queste poche considerazioni dopo avere letto nella liturgia di oggi il pensiero di Gesù: «Avete inteso che fu detto agli antichi: Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: “Stupido”, dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: “Pazzo”, sarà destinato al fuoco della Geènna». Se porta all’inferno anche solo l’offendere un fratello…)

La nave dei folli di Platone ci ricorda che per vivere in società c’è bisogno di verità e rispetto, e che solo una guida appassionata al vero bene dell’uomo può condurre alla meta della vita. Quello di cui abbiamo bisogno è solo una «cultura della vita», anche nel suo livello civile. E noi, che stiamo entrando in Europa, non possiamo dimenticare la sentenza del 29 aprile 2002 della CEDU: «La Corte ritiene, dunque, che non è possibile dedurre dall’articolo 2 della Convenzione un diritto di morire, sia per mano di un terzo o con l’assistenza di una pubblica autorità».

Come ricorda Mauro Ronco nel testo Eutanasia. Le ragioni del no: «Le leggi che misconoscono il diritto fondamentale e fontale alla vita negano, oltre la verità dell’essere di ciascun uomo, altresì l’uguaglianza di tutti gli uomini di fronte alla legge, poiché “si pongono […] radicalmente non solo contro il bene del singolo, ma anche contro il bene comune e, pertanto, sono del tutto prive di autentica validità giuridica. Il misconoscimento del diritto alla vita, infatti, proprio perché porta a sopprimere la persona per il cui servizio la società ha motivo di esistere, è ciò che si contrappone più frontalmente e irreparabilmente alla possibilità di realizzare il bene comune. Ne segue che, quando una legge civile legittima l’aborto o l’eutanasia cessa, per ciò stesso, di essere una vera legge civile, moralmente obbligante” [SanGiovanni Paolo II, Evangelium vitae, 72]»

don Gabriele Mangiarotti