Fare informazione è un lavoro sempre più difficile. Minacce, indagini gratuite, querele. Soprattutto la querela è utilizzata come clava per cercare di limitare le inchieste scomode e liberarsi di quei giornalisti che non guardano in faccia a nessuno, che non si vendono, né si piegano. La libertà ha naturalmente un prezzo che non tutti sono disposti a pagare. Piccola digressione propedeutica all’estensione di questo articolo: domani 25 novembre ricorre la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Una delle maggiori conquiste in questo campo è certamente l’introduzione nel codice penale italiano nel 2009 dell’art. 612-bis, il cosiddetto reato di “stalking”. Si tratta della principale arma in mano ai soggetti deboli per difendersi dai propri aguzzini. Capirete dunque l’ilarità da un lato e la rabbia dall’altro, che si prova quando si viene a sapere che c’è chi utilizza la legge sugli atti persecutori per perseguire chi fa informazione. In una sorta di offensiva 2.0 verso i giornalisti spunta così l’arma dello stalking, puntata contro chi… fa il suo mestiere! A quanto pare per qualcuno leggere quotidianamente articoli di pubblico interesse comporta ansia e stress! Se passasse un messaggio del genere qualsiasi pubblico ministero potrebbe essere chiamato in giudizio. D’altra parte fare indagini, interrogatori, andare a prendere l’indagato a casa magari, provocano senza dubbio in quest’ultimo una certa preoccupazione, no? Perché allora non denunciare i magistrati che svolgono la loro professione? Accusare di stalking un operatore dell’informazione equivale a mettere alla berlina l’essenza stessa del suo lavoro. Una aberrazione che mina alle fondamenta la democrazia. Io penso che certa gente farebbe meglio a pensare a quello che ha combinato e all’ansia che le sue di condotte creano nella comunità, piuttosto che cercare modi fantasiosi per sperare che la stampa non parli più di lui. Per quanto riguarda la giurisprudenza in merito, dobbiamo constatare che qualche cervellone in Italia aveva già considerato questo escamotage per liberarsi dei cronisti scomodi. Ma ci ha pensato la Cassazione a fissare paletti decisivi. In una recente sentenza si afferma che “non ricorre il delitto di stalking in caso di frequenti articoli giornalistici e di post dal contenuto diffamatorio, posto che a tal fine occorre la coesistenza di altre molestie”. Insomma neppure se si appurasse che gli articoli sono diffamatori ricorrerebbe il reato di atti persecutori, poiché nello stesso momento dovrebbero concorrere più fattispecie. E anche nel caso ricorressero articoli, appostamenti, sms, tutto quanto dovrebbe essere soppesato con il pubblico interesse e la necessità di informare la comunità su determinati eventi e condotte. Per capirci un conto è un amante che non si rassegna e che tampina la ex con intenti tutt’altro che nobili ingenerando in lei attraverso anche reiterate minacce la paura di essere ammazzata. Un altro è il giornalista che insegue un personaggio con la volontà di intervistarlo e chiedergli conto delle sue condotte circa importanti fatti di cronaca. Si pensi solo a programmi come “Le Iene” dove spesso e volentieri si dà vita a inseguimenti, telefonate e appostamenti per riuscire a contattare un determinato personaggio. Ovviamente il diritto di cronaca e il pubblico interesse assorbono tutto il resto. Sono concetti che dovrebbe comprendere pure un bambino, ma tutto è lecito evidentemente quando c’è la determinazione di bloccare penne scomode o silenziare quelle voci che ricordano al Paese la malefatte di chicchessia. Auguriamoci allora che anche a San Marino, così come nel resto d’Europa e del mondo, ad essere perseguito sia chi cagiona danni al prossimo e non certo chi cerca di fare luce su tali condotte.
David Oddone