Sabato notte, e un nome si è fatto strada tra i silenzi di San Marino: Mattia Ceccoli. Non lo conoscevo, Mattia, ma ora è come se fosse un fratello, un amico, uno di noi.
La sua storia ci ha travolti, infilandosi nelle case, nei bar, nei pensieri di chi non trova parole, nell’angoscia di lo viveva. Eppure, niente foto. I media sammarinesi, sempre con la lente d’ingrandimento su un lampione inaugurato o un mercatino di Natale, stavolta hanno chiuso gli occhi.
Non un’immagine, non un volto, quasi temessero che guardarlo ci avrebbe fatto troppo male. O troppo bene. Perché una foto di Mattia – un ragazzo in divisa, un sorriso, una vita – ci avrebbe inchiodati.
Ci avrebbe costretti a riflettere più a fondo, a sentire il peso di ogni volante, a guidare con più responsabilità, almeno per un po’. Ma no, meglio la cronaca muta, quella che non rischia, che non scuote le poltrone. E allora il suo nome, senza pixel, ha dovuto fare tutto da solo: bucare schermi, bacheche, cuori. E ci ha feriti.
Dal più semplice al più colto, dal ragazzo col motorino al nonno con la patente sgualcita. Perché questa non è cronaca. Non è una riga da buttare nel tritacarne delle notizie. È una ferita. E una ferita ci riguarda, ci interroga, ci brucia. Non è successa a “qualcuno”. È successa a noi.

Se siamo onesti, Mattia potremmo essere noi. Non solo perché potremmo indossare la sua uniforme, il suo senso del dovere, la sua vita in mezzo alla strada a proteggere gli altri. Ma perché potremmo essere dall’altra parte. Dietro un volante, con un bicchiere di troppo, un messaggio da leggere, la testa altrove, la presunzione che “a me non capita”. Tutti santi, finché la vita non ci sbatte in faccia i nostri peccati. Tutti giudici, finché non ci tocca la gogna.
E invece capita. Eccome se capita! Un attimo di distrazione, e non solo rischi la tua vita, ma cambi quella di qualcun altro. Per sempre. Ti svegli all’alba, in un letto che non riconosci, col cuore che pesa e una vita che non torna indietro. Altro che prigione: la coscienza è un secondino che non dorme mai.

Mattia oggi lotta. Per una gamba, per il futuro, per ogni respiro. E noi con lui, stretti in un abbraccio che non fa rumore ma si sente fin lassù, in quel letto del nosocomio cesenate. Ogni agente, ogni lavoratore della strada, ogni divisa che sta lì a rischiare, lo sa: l’imprevisto è dietro l’angolo. Ha un nome, un volto, un cuore che batte sotto sedazione. E non serve un colpevole da inchiodare al rogo delle tastiere. No. Se chi ha investito è davvero uno di noi, come si sussurra – magari un giovane che ha giurato di proteggere – il paradosso si compie. Chi serve, ferisce. Senza volerlo, ma ferisce.
E noi? Chi siamo per puntare il dito? Chi non ha mai guidato col telefono in mano, stanco, nervoso, con un “tanto non succede”? Quella notte, al volante, potevamo esserci noi. E se ci fossimo stati, cosa vorremmo? Una gogna su Facebook o il silenzio di chi riflette e tace?
Che sia una lezione, allora. Dura, drammatica, forse per noi necessaria. Da gridare nelle scuole, nei bar, a casa. Guidare non è un gioco. È responsabilità. E noi, diciamolo, non siamo un popolo che guida pensando agli altri. Abbiamo tutti guardato il telefono. Tutti bevuto un bicchiere di troppo. Tutti pensato: “Figurati se capita a me”. E invece capita. A chi aspetta una famiglia a casa. A chi lavora per proteggerti. A chi non ha colpe ma paga il prezzo.
Mattia ci ha rimesso carne, ossa, sangue. Qualcun altro porterà un peso che non si lava via. E se c’è qualcosa di peggio del dolore, è sapere di averlo causato.
Basta leggerezza. Basta “tanto non succede ame”. Ogni volante è un’arma, e un’arma può uccidere. Ma nelle mani giuste, può salvare una vita. Che le nostre mani, da oggi, siano quelle giuste. E le nostre bocche, per una volta, non giudichino. Tacessero. Riflettessero. E, magari, chiedessero scusa.
A Mattia, a chi si sente in colpa… E a noi stessi.
Enrico Lazzari