Salvataggi in mare: è un dovere morale e politico. Vanno stroncati, sono viaggi organizzati. Nella giornata di ieri c’erano quattro navi in porto a Catania e altre due al largo: 505 migranti sbarcati, 572 ancora sulle navi. Mentre l’Italia ancora una volta si divide sull’accoglienza o sul respingimento.
Ci sono quelli che sono d’accordo con una politica di difesa delle coste italiane e di non accoglienza. Sull’altro fronte quelli che sono contro i discorsi di odio e di razzismo e favorevoli al rispetto dei diritti umani senza alcuna discriminazione.
San Marino è al di fuori di questo dibattito: non ha porti sul Mediterraneo, rifugiati e migranti possono essere accolti solo sulla scorta di decreti che ne stabiliscono le modalità (vedi accoglienza ucraini) oppure dopo l’approvazione della legge in materia di accoglienza di minori stranieri non accompagnati. Già nel marzo 2021 si era vista la proficua collaborazione con la Comunità di Sant’Egidio, che aveva attivato corridoi umanitari. In ogni caso, ingressi contingentati e controllati. Cosa che non avviene in Italia e probabilmente in nessuno degli Stati europei di confine.
Senza dare ragione né ad una corrente, né all’altra, in quanto entrambe hanno una parte di torto e una parte di ragione, va detto che prima di parlare di diritto d’asilo o di diritto a migrare, è bene avere chiaro che il diritto di spostarsi da un paese all’altro è probabilmente uno dei diritti distribuiti in modo più iniquo nel mondo. Ci sono delle persone che hanno dei passaporti forti come quelli degli Stati Europei o degli Stati Uniti o del Giappone, che possono andare dove vogliono. Poi ci sono gli afghani, che vengono respinti con distese di filo spinato e gli africani che, da qualunque parte passino, non sono mai graditi. Nel frattempo l’emergenza umanitaria procede senza aspettare i tempi della politica e le cronache riportano l’attenzione sulle navi delle ONG cariche di migranti, alla ricerca di un porto sicuro in cui farli attraccare. E questo solleva una serie di interrogativi: perché intervengono? Chi le finanzia? Perché, se sono organizzazioni internazionali, hanno comunque issata la bandiera di una nazione? Perché non portano i migranti nello Stato indicato dalla loro bandiera e chiedono invece di attraccare in altri Stati?
Fu dopo i grandi naufragi, su tutti quello di Lampedusa del 3 ottobre 2013, con 368 morti accertati, che la società civile, sconvolta e inorridita da queste morti, iniziò ad organizzarsi per le azioni di salvataggio. In contemporanea nacque anche Mare Nostrum, la rete di salvataggio ideata e gestita dal Governo italiano. Dopo l’arretramento dei governi e le nuove stragi del 2015, i privati hanno svolto un ruolo di supplenza raccogliendo inizialmente riconoscimenti, encomi e premi. Attualmente le ONG italiane sono oltre 270, non sappiamo quante siano quelle straniere. Hanno navi modernissime, con tecnologie molto avanzate, attrezzature di eccellenza, numeroso personale a bordo: chi paga? Chi guadagna?
È ovvio che su interrogativi mai risposti si addensino dubbi e illazioni, come ad esempio l’ipotesi che ci sia un filo diretto tra loro e i trafficanti di essere umani, veri e propri moderni negrieri che con i lauti guadagni finanziano la guerriglia, se non addirittura il terrorismo.
Le ONG nascono comunque su iniziativa privata, con donazioni provenienti da fasce dell’alta borghesia e di grandi aziende che abbracciano obiettivi umanitari, ma anche dalle piccole offerte di cittadini comuni.
Uno Stato può vietare alla nave di una ONG di effettuare un salvataggio di migranti in mare?
Non esiste né potrebbe esistere una norma che impedisca ad una nave di operare dei salvataggi in mare. Infatti nei vari trattati internazionali e norme nazionali, è previsto l’obbligo di salvare le vite in mare come adempimento di un dovere e come valore da sempre riconosciuto da tutti gli Stati nel diritto del mare (articoli 1113 e 1158 del codice della navigazione italiano).
Le modalità di messa in salvo e disimbarco dei naufraghi una volta operato il salvataggio e individuato il cosiddetto safety place o porto sicuro, sono poi regolamentate da un particolare trattato internazionale, il SAR (Search And Rescue). La competenza a giudicare le eventuali violazioni del comandante in acque nazionali di uno Stato diverso da quello di bandiera, sono regolate dalle norme sulla giurisdizione di diritto internazionale.
Il comandante che operi un salvataggio è tenuto giuridicamente a rispettare le norme del trattato SAR e a condurre i migranti al porto sicuro più vicino. Quando questo porto sicuro, ad esempio, è l’Italia, le navi ed il comandante sono tenuti a operare lo sbarco nei tempi più rapidi possibile. Giuridicamente, gli obblighi del Governo italiano, potrebbero essere superati solo a seguito di una disponibilità volontaria di altri porti di altri Stati. Ma se non c’è disponibilità volontaria di altri, il Comandante compierebbe un atto illegittimo andando in un altro porto di sua iniziativa, violando così le norme internazionali.
Così è la questione, al di fuori delle opinioni ideologiche. Questo è il rischio vero: l’ideologia. Fermarsi alla polemica sui singoli sbarchi non è la prospettiva migliore per affrontare il tema dell’immigrazione. Governare il fenomeno richiede nuove politiche in Italia e nella UE. Nonché una ridefinizione delle basi economiche del rapporto Europa-Africa.
a/f