La votazione di ieri in Commissione I, 10 dicembre 2025, ha fatto saltare in aria un pilastro del vecchio ordinamento sammarinese: quello secondo cui si poteva essere cittadini di San Marino solo se si era pronti a rinunciare a tutto il resto. Quel principio, coltivato per decenni come una reliquia di sovranità, è stato cancellato con un voto secco, senza esitazioni. Da oggi chi si naturalizza sammarinese potrà conservare la cittadinanza d’origine, cosa che non è stata permessa a me che ho dovuto rinunciare alla cittadinanza italiana.
È un cambio di rotta storico, culturale, simbolico.
Chi vive da almeno vent’anni nella Repubblica, parla italiano, conosce le istituzioni e si riconosce nei valori dello Stato, potrà diventare cittadino senza dover amputare una parte della propria storia personale. Non ci saranno più scelte laceranti da compiere. Non ci saranno più famiglie costrette a barcamenarsi tra silenzi e rinunce per non perdere contatti, assistenze, diritti nel paese d’origine.
La svolta arriva dopo un anno di confronto parlamentare ma, prima ancora, dopo anni di domande rimaste inascoltate. Un’Istanza d’Arengo approvata nel 2024 ha aperto la strada, ma è stata la pressione della realtà concreta, fatta di migliaia di persone radicate sul Titano, che ne condividono il destino, a rendere questa riforma politicamente ineludibile. San Marino ha preso atto di se stessa.
La cittadinanza non è più un premio da conquistare sacrificando la propria biografia.
È un diritto, certo da guadagnare con l’integrazione, ma che non può più passare per una cancellazione personale. I nuovi requisiti sono chiari e anche più severi di prima: vent’anni di residenza effettiva e continuativa.
Continuativa vuol dire che non bastano più i permessi o le presenze intermittenti; serve conoscenza della lingua italiana; serve superare un esame sulla storia e le istituzioni della Repubblica. Nessun automatismo. Nessuna porta spalancata. Ma una porta vera, finalmente.
Eppure, come sempre accade quando si toccano simboli, c’è chi ha storto il naso. Alcuni comitati parlano di cedimento culturale, evocano un futuro in cui la maggioranza dei cittadini sarà “doppia” e quindi, a loro dire, meno leale, meno coinvolta. Qualcuno ha anche sussurrato che la riforma possa rivelarsi un colpo di mano elettorale. Ma i numeri smentiscono i timori: la platea potenziale è contenuta, le condizioni più stringenti (che io, personalmente, avrei messo ancora più ferree). E soprattutto, l’identità non si protegge col filo spinato giuridico. Si rafforza con il senso di appartenenza, non con le esclusioni.
Per anni San Marino ha imposto a sé stessa una visione ristretta di cittadinanza. Era un piccolo paese chiuso nel suo arrocco. Oggi è una comunità molto più articolata, fatta di storie intrecciate, di figli nati da genitori di origini diverse, di affetti e legami che travalicano confini e registri anagrafici. Era tempo che le norme la smettessero di far finta che tutto questo non esistesse.
Non è una resa, è una liberazione. La Repubblica ha scrollato di dosso la paura che l’ha tenuta immobile per decenni. Ha avuto il coraggio di dire che si può essere pienamente sammarinesi senza dover recidere i fili che ci legano altrove. Ha riconosciuto che l’identità non si difende con le frontiere, ma con la partecipazione. È un atto politico, ma prima ancora, è un gesto di giustizia. Ora la palla passa al Consiglio Grande e Generale per l’approvazione definitiva.
Marco Severini – direttore GiornaleSM
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