Colpevole. I giudici della corte d’assise di Arezzo non hanno dubbi nel dire che è Padre Graziano Alabi, congolese, l’assassino della sua parrocchiana (forse di più) Guerrina Piscaglia, l’irrequieta casalinga del piccolo borgo di Ca’ Raffaello, sulle montagne a cavallo fra Toscana e Romagna, scomparsa il primo maggio 2014 senza lasciare tracce. La condanna è una fotocopia della richiesta del pm Marco Dioni: 27 anni di carcere più tre di libertà vigilata, il massimo per i reati combinati di omicidio volontario e soppressione di cadavere
La sentenza arriva, nel giorno che sarebbe stato del compleanno di lei, alle otto e un quarto di sera, dopo una camera di consiglio durata sei ore. Il frate più sospettato d’Italia la accoglie senza un fremito, impassibile, freddo come è quasi sempre stato nel corso dell’inchiesta prima e del processo poi. Non muove un sopracciglio, non piange, non commenta. Si dilegua nella notte, assediato dai giornalisti che lo circondano nemmeno fosse un divo della Tv, su un Suv Mercedes condotto da un altro congolese, , fratello di Padre Faustin, il parroco di cui Gratien era il vice e la cui testimonianza è stato uno dei grandi elementi d’accusa.
In aula, intanto, scoppiano loro sì in lacrime i parenti di Guerrina. «Finalmente un po’ di giustizia», commenta Benito Alessandrini, il suocero. «Mi esce il cuore dal petto», si lascia scappare Mirco, il marito, compagnone di Padre Graziano finchè le indagini non li hanno divisi. «Ora deve dirci dove è il cadavere», dice la zia Rosa, abbracciando il pm Dioni, il grande vincitore, che se ne va anche lui senza parlare: «Mi pare che una condanna a 27 anni non abbia bisogno di commenti». La sua ricostruzione dei fatti, pur con tutte le lacune di un caso indiziario, ha retto fino in fondo. Persino in un giallo di provincia profonda nel quale si ipotizza un delitto senza un corpo e senza specificarne le modalità: «Solo Padre Graziano potrebbe dirlo se si decidesse a parlare», spiega il Grande Accusatore. Tocca agli avvocati di parte civile spingersi più in là, nel mentre tracciano un ritratto al vetriolo di un «frate a statuto speciale», che «ha ucciso con le stesse mani con le quali subito dopo ha consacrato il Corpo di Cristo»: l’ha ammazzata a mani nude, strangolata o soffocata.
Ma al di là degli scenari più arditi, due sono stati gli elementi che probabilmente hanno pesato di più sulla sentenza. Il sms delle 17,26 del primo maggio che dal telefono di lei raggiunge un prete nigeriano sconosciuto a tutti se non al frate: «Sono scappata con il mio amorozo marochino (sic)». Pare l’indizio forte che lui fosse già in possesso del cellulare di Guerrina e lo usasse per depistare. Perchè se non c’entrava? Per giustificare questo primo errore («Voleva inviare il messaggio alla catechista del paese ma sbagliò riga della rubrica»), Padre Graziano tira fuori dal cilindro la misteriosa figura dello Zio Francesco, fantasma che avrebbe accompagnato lei nella fuga ma che nessuno ha mai visto. Sono firma e controfirma sul delitto, dice il Pm. L’avvocato difensore Riziero Angeletti non ci sta: «C’era il ragionevole dubbio che imponeva di assolvere». Ma ormai il caso è chiuso, può riaprirlo solo l’appello. Il Resto del Carlino