Il Governo ha scelto la via del decreto-legge per introdurre un permesso di soggiorno provvisorio straordinario per cittadini palestinesi, giustificandolo con l’emergenza umanitaria legata al conflitto nella Striscia di Gaza. Scelta politica legittima, certo. Ma che va letta per quello che è, senza retorica e senza infiocchettamenti: un’operazione di accoglienza integralmente a carico dello Stato sammarinese, con costi che ricadono sulla collettività. Il decreto fissa un tetto massimo di 30 persone, numero che viene spesso citato per minimizzare l’impatto.
Entriamo nel merito.

I cittadini palestinesi ammessi ottengono un permesso di soggiorno provvisorio della durata di un anno, rinnovabile annualmente. Il rilascio e il rinnovo sono gratuiti, senza il pagamento delle somme normalmente previste per gli stranieri. Già qui si apre una prima evidente disparità di trattamento rispetto a chi, da anni, segue i canali ordinari, paga, attende e spesso si vede respingere le domande.
Sul piano dei servizi, il decreto è ancora più esplicito. Ai titolari del permesso sono garantiti assistenza sanitaria e sociosanitaria gratuite, accesso all’istruzione, servizi assistenziali, attività sportive e culturali. In pratica, lo stesso trattamento dei residenti, senza esserlo. Non una protezione minima, ma un’integrazione piena, immediata, finanziata dallo Stato.
C’è poi il capitolo lavoro. I beneficiari del permesso possono lavorare, sia come dipendenti sia nel lavoro occasionale, con procedure agevolate ed esenzioni documentali. Anche qui, un canale preferenziale rispetto a tanti altri stranieri che vivono e lavorano a San Marino da anni, spesso con regole più rigide e controlli più stringenti.
Ma il cuore del provvedimento è il sostegno economico diretto. Il decreto prevede l’erogazione di un emolumento straordinario a fondo perduto, accreditato su SMAC Card. Non un contributo simbolico, ma un trasferimento monetario gestito mensilmente dallo Stato, con fondi pubblici. Gli importi saranno stabiliti dal Congresso di Stato, ma la struttura è chiara: reddito garantito, finanziato dal bilancio pubblico, imputato al capitolo “Fondo per la cooperazione allo sviluppo internazionale”.
In parallelo, il decreto incentiva i privati a mettere a disposizione alloggi: riduzione del 50% della rendita catastale sugli immobili utilizzati per l’ospitalità e sospensione dei costi di acqua, luce e gas. Anche questi costi non spariscono: vengono semplicemente spostati sulle spalle della collettività, attraverso l’Azienda Autonoma di Stato per i Servizi Pubblici.
Il quadro è quindi lineare: permesso gratuito, sanità gratuita, scuola gratuita, contributo economico diretto, accesso al lavoro agevolato, utenze sospese, incentivi fiscali sugli alloggi. Tutto concentrato su una platea selezionata per decreto, senza un dibattito pubblico vero, senza una valutazione trasparente dei costi complessivi, senza spiegare perché questa emergenza debba essere gestita da San Marino e non nei Paesi di primo approdo o attraverso canali internazionali già esistenti.
Il Governo parla di umanità. Ma la politica non vive solo di intenzioni: vive di scelte e conseguenze. E la conseguenza
è che, mentre ai cittadini si chiedono sacrifici, prudenza e rigore di bilancio, qui si apre un canale di spesa straordinaria, fuori dal sistema ordinario, con diritti pieni e doveri ridotti.
Il punto non è essere “contro” qualcuno. Il punto è essere a favore della coerenza, dell’equità e della sovranità decisionale. San Marino non è un grande Stato, non ha margini infiniti, non può permettersi politiche simboliche che funzionano bene nei comunicati stampa ma molto meno nei conti pubblici.
Questa non è solo una scelta umanitaria. È una scelta politica precisa, ideologica, che introduce un precedente e ridisegna, per decreto, il concetto di accoglienza e di welfare. E come tutte le scelte politiche, va giudicata nel merito, non coperta dal silenzio o dall’emergenza.
Il Governo ha deciso. Ora abbia almeno il coraggio di dire chiaramente ai cittadini chi paga, quanto paga e perché, senza nascondersi dietro le buone intenzioni.
E poi c’è il convitato di pietra, quello che il decreto non scrive ma rende inevitabile: i ricongiungimenti familiari.
Oggi il numero viene venduto come rassicurante: 30 persone. Domani, con il rinnovo dei permessi, l’accesso al lavoro, l’assistenza sanitaria, la scuola per i minori e un reddito garantito, il passo verso il ricongiungimento è automatico, anche se non esplicitato nel testo. È la prassi, non l’eccezione. È così che funziona ovunque.
Trenta diventano 100, poi 300, poi 500. E nel giro di pochi anni si arriva a qualche migliaio di persone stabilmente presenti, con figli scolarizzati, cure sanitarie continuative, reti sociali costruite sul territorio. A quel punto parlare di “temporaneità” diventa una finzione amministrativa: nessun governo avrà mai il coraggio politico di revocare permessi, togliere SMAC Card o interrompere servizi a nuclei familiari ormai radicati.
È il solito schema: si parte dall’emergenza, si promette che sarà limitata, controllata, circoscritta. Poi diventa strutturale, irreversibile, permanente. E quando i numeri esplodono, si dirà che “non si può tornare indietro”.
Chi paga lo sappiamo già. Pagano i cittadini sammarinesi, con le tasse, con servizi che si assottigliano e con un welfare sempre più sotto pressione. Pagano anche quei residenti stranieri che da anni vivono qui rispettando regole rigide, senza corsie preferenziali, senza contributi a fondo perduto.
Questo decreto non è solo un atto umanitario. È una scelta politica che apre una porta. E una volta aperta, non la chiudi più.
Il Governo doveva dirlo chiaramente fin dall’inizio. Non l’ha fatto. E quando tra qualche anno i numeri non saranno più 30 ma centinaia o migliaia, sarà troppo tardi per fingere sorpresa.
Marco Severini – direttore GiornaleSM












