San Marino. Quel ragazzo “nero”… – “Qui gatto… ci cova” la rubrica di David Oddone

Sono rimasto profondamente colpito da quanto accaduto durante la partita di Champions League fra PSG e Istanbul Basaksehir, sospesa per un caso di razzismo. I fatti in breve. Sebastian Coltescu, quarto uomo, avrebbe dato del “negro” a Webo, assistente tecnico del club turco. Immediata e indignata la reazione dei giocatori, partita sospesa, e Uefa che apre un’inchiesta. Non stavo guardando tale incontro di calcio e ho appreso degli eventi solo attraverso i media. Francamente non riuscivo a capacitarmi che potesse essere accaduto un fatto tanto grave. Fra l’altro per via del Covid gli stadi sono chiusi al pubblico, dunque qualsiasi parola o frase viene sentita distintamente. Senza contare che parliamo di arbitri e di un incontro Uefa, quindi teoricamente dovremmo avere a che fare con professionisti. Aggiungiamo che la stessa Uefa sta doverosamente dedicando risorse a campagne contro il razzismo. E allora? Approfondendo pare che ad accendere la miccia possa essere stato un problema di lingua. In pratica per segnalare il comportamento scorretto del giocatore, il quarto uomo si sarebbe rivolto all’arbitro Hategan dicendo le parole rumene “tipul acesta negru”: la traduzione e più o meno, “quel ragazzo nero”. Lo avrebbe fatto per far capire velocemente a chi facesse riferimento. Il termine “negru” non andrebbe inteso come la parola italiana, assai simile ma di significato ed accezione diversa e assolutamente razzista e dispregiativa. “Negru” insomma significa “nero”. In molti parlano di un grande malinteso, dovuto alle diverse lingue parlate in campo. Tutto a posto allora? Neanche per idea. Quanto successo potrebbe apparire solo all’apparenza meno grave. Se un possibile “fraintendimento” potrebbe esserci stato magari per alcuni media, così non è stato per i giocatori in campo che hanno capito non bene, anzi benissimo l’antifona. Infatti la lecita lamentela della vittima, Demba Ba, in un video che sta circolando sui social, sembrerebbe essere legata non tanto alle parole in sé, ma al fatto che non si dovrebbe indicare una persona dal colore della pelle, in nessun caso. Si sente infatti Ba dire “non diresti mai questo ragazzo bianco”. Ecco, il punto sta proprio qui. Tutto chiarissimo, senza bisogno di giri di parole, rattoppi, giustificazioni. Sebastian Costantin ha sbagliato e dovrebbe immediatamente chiedere scusa (tanto per cominciare). Non siamo in un momento storico normale. Assistiamo colpevolmente ancora a rigurgiti xenofobi e di razzismo. Nel 2020 c’è ancora gente che giudica l’altro per il colore della pelle. Mentre rimbomba nelle nostre orecchie l’eco delle pallottole che hanno spezzato le vite di afroamericani negli Stati Uniti e le immagini scioccanti che hanno registrato la morte in diretta di George Floyd. Per questo non ci possiamo permettere deroghe o “fraintendimenti”. Tanto più che parliamo di una manifestazione sportiva vista da milioni di telespettatori e che come accennato qualche riga fa, la Uefa sta puntando tantissimo sulla lotta al razzismo utilizzando come testimonial calciatori e arbitri. E’ inaccettabile che un “dipendente” della Uefa possa fare uno scivolone del genere, ammesso e non concesso che fosse in buona fede. Perché le parole hanno un significato, possono ferire quanto le pallottole. E proprio il fatto di non rendersi conto di utilizzare un “hate speech”, il pensare di non essere razzisti quando in realtà si adoperano termini impropri e sbagliati è pericoloso. E’ necessario uscire da questa presunta normalità, perché additare qualcuno come “nero” non è affatto normale. Stando a quanto raccomandato dal Consiglio d’Europa nel 1997, ricadono nei discorsi d’odio quelle “espressioni che diffondono, incitano, promuovono o giustificano l’odio razziale, la xenofobia, l’antisemitismo o altre forme di minaccia basate sull’intolleranza – inclusa l’intolleranza espressa dal nazionalismo aggressivo e dall’etnocentrismo –, sulla discriminazione e sull’ostilità verso i minori, i migranti e le persone di origine straniera”. Indipendentemente dalle forme assunte (scritte o orali, verbali o non verbali, esplicite o implicite) e dalla portata giuridica (eventuali “reati d’odio”), può ricadere all’interno della definizione di hate speech qualsiasi espressione violenta o discriminatoria nei confronti di altre persone o gruppi di persone. Siccome l’hate speech colpisce le persone per le loro caratteristiche e/o condizioni personali, le azioni di contrasto al fenomeno hanno bisogno di adattarsi al contesto e ai fenomeni sociali, economici, politici e tecnologici in corso. L’episodio allora va condannato senza sé e senza ma per lanciare un messaggio di integrazione e cultura.

David Oddone

Rubrica “Qui gatto… ci cova”