San Marino. Redistribuzione della ricchezza per sconfiggere la povertà. Un imperativo morale, oltre che politico! … di Angela Venturini

Una signora va in tivù a dire che stanno per tagliarle acqua, luce e gas. Deve essere allo stremo per arrivare ad un gesto così eclatante. Dice che un lavoro ce l’ha, ma non basta per tirare avanti quattro figli, di cui due minorenni, pur abitando in una casa dello Stato. Ha fatto dei debiti e per pagarli ha dovuto procedere alla cessione del quinto dello stipendio. Ecco perché non ce la fa a pagare le bollette. 

Altro che: a San Marino siete tutti ricchi. È un pregiudizio che ormai non ha più senso. 

Del resto, non è la sola a trovarsi in difficoltà: ci sono almeno un centinaio di famiglie costrette a rivolgersi alla Caritas. Poi c’è la SUMS che assiste altre famiglie e l’assegno dello Stato a sostegno dei redditi sotto gli 8 mila euro. Ma dietro a tutto questo c’è un sommerso di famiglie unicellulari (spesso formate da pensionati) a cui il reddito non basta più per via dell’inflazione e del continuo aumento della spesa quotidiana. 

San Marino ha conosciuto la povertà, almeno fino a una settantina di anni fa, quando per mettere insieme il pranzo con la cena, tantissimi giovani emigravano. Poi, il boom economico scatenato dal turismo e da “santa Monofase”, in aggiunta al reddito degli emigrati, ha cambiato le cose, portando un benessere piuttosto diffuso in tutti i ceti sociali. Gli stipendi sammarinesi sono tuttora agognati anche all’esterno: non è un caso che ci sono oltre 8mila frontalieri. E forse non è un caso che San Marino è collocato da tra i 10 Paesi più ricchi del mondo con un PIL pro capite di 72 mila dollari all’anno. 

Ma questo dato subisce il vizio di tutte le statistiche. Infatti, oltre il 60% per cento delle pensioni è sotto i 1500 euro al mese, solo un 6% supera i 50 mila annui. Lo stipendio medio va dai 28mila euro per l’impiegato, ai 40mila di un professionista, ai 60 mila per un medico specialista. Poi ovviamente ci sono stipendi anche molto più alti, ma sono numericamente pochi. Va detto che lo stipendio medio a San Marino è lievemente superiore rispetto a quello italiano, grazie anche a un sistema fiscale molto favorevole alle imprese, che permette di creare posti di lavoro e di garantire salari competitivi rispetto ad altre realtà europee. A far da contraltare, il costo della vita piuttosto elevato, soprattutto per quanto riguarda l’alloggio, il cibo e i servizi. 

Ora, se queste sono le condizioni in cui si trova la maggior parte della popolazione, quanti Paperoni ci sono a San Marino per alzare fino a 72mila dollari il PIL medio pro-capite? E quanto è alto il loro capitale? Pagano tutti le tasse o grazie ai loro patrimoni riescono a trovare mille scappatoie? È anche vero che in questo quadro, il Titano rispecchia perfettamente l’andamento mondiale, dove il 10% della popolazione detiene l’85% per cento della ricchezza totale. Una disomogeneità che è venuta sempre più evidente negli ultimi 50 anni. Ma noi siamo piccoli e la solidarietà sociale dovrebbe essere un imperativo morale e politico. 

Purtroppo abbiamo visto nella passata legislatura che l’attenzione va sempre ai più ricchi con decreti che hanno diminuito le tasse per i possessori di trust e per il commercio di oro. Del tutto abolite per i detentori di beni di lusso come navi e aerei (decreto 101/2023). Questo dimostra una colpa della politica (non solo sammarinese) oramai profondamente subordinata all’economia (in particolare, alla finanza) e incapace allo stesso tempo di garantire un’inversione di tendenza nell’approccio al consumismo.

Di fatto, le disuguaglianze esistono anche perché il sistema economico, che genera ricchezza, non riesce a distribuirla in modo uniforme. Ma da chi viene fortemente influenzato, giorno per giorno, il sistema economico, se non dalla politica? Sono proprio i politici a parlare di fattori come debito, deficit e spesa pubblica, con dichiarazioni che facilmente alimentano conseguenze economiche.

Non solo, ma sono sempre loro – i politici – a proteggere e a favorire i più ricchi (come dicevamo poco sopra). Così si genera la madre di tutte le ingiustizie: cioè che sono le tasse dei lavoratori dipendenti a reggere il sistema del welfare. 

Appare quindi evidente che una prima giustizia sociale potrebbe avvenire grazie allo strumento fiscale, che ovviamente non potrà mai essere la panacea di tutti i mali perché comunque il reddito pro capite non è sufficiente a stabilire il benessere di una comunità. Ad esso infatti concorrono altri fattori: speranza di vita, sistema sanitario, sistema scolastico, sicurezza, costo della vita, eccetera. 

In ogni caso il primo passo dovrebbe consistere nel realizzare un sistema fiscale che vada a gravare in maniera proporzionale sui redditi, nonché prevedere un aggiornamento dei sistemi di governance delle imprese, al fine di renderle maggiormente all’altezza di rappresentare il benessere sociale. 

E poi si dovrebbe anche parlare di ICEE, visto che ormai ci si lavora da un paio di legislature, ovvero di quello strumento utile a determinare la situazione reddituale delle famiglie in riferimento alla composizione del proprio nucleo e del proprio patrimonio, e quindi regolamentare l’accesso ai servizi gratuiti e ai benefit riservati alle fasce più disagiate e bisognose. Se anche questo non dovesse essere sufficiente per casi come quello della signora sola con quattro figli, si potrebbe anche cominciare a parlare di “salario decente”, come ha fatto la Francia. E poi, magari aiutarla a trovare lavoro per i due figli maggiorenni. Che sarebbe il miglior sostegno possibile.

Angela Venturini