San Marino. Referendum UE. Quando la forma è sostanza. Termini, rinvii e coerenza giurisprudenziale alla prova delle garanzie costituzionali e della CEDU .. di Marco Severini, direttore GiornaleSM

La democrazia diretta, a San Marino, non è un orpello retorico ma un pilastro dell’ordinamento.

La Dichiarazione dei Diritti e la Legge Qualificata 29 maggio 2013 n. 1 disciplinano referendum e iniziativa legislativa popolare proprio per rendere effettiva la partecipazione dei cittadini alle scelte di maggiore rilievo.

Per questa ragione il legislatore ha scolpito tempi e forme con particolare rigore: la speditezza del procedimento e la certezza dei passaggi non sono dettagli, ma garanzie ed in questo contesto, il Collegio Garante della Costituzionalità delle Norme è chiamato a vigilare tanto sulle formalità dei promotori quanto sull’osservanza, da parte propria, delle scansioni temporali fissate dalla legge.

IL PRIMO SNODO riguarda il referendum propositivo sull’associazione all’Unione Europea presentato dal Comitato “CapiFamiglia”.

L’udienza pubblica si è svolta il 1° settembre 2025 come prevista dall‘articolo 9 della L.Q. 1/2013 che recita: ”Il Presidente del Collegio Garante convoca il Collegio stesso nel termine massimo di giorni venti dalla data della comunicazione, al fine della pronuncia circa l’ammissibilità”.

Secondo poi l’articolo 10, comma 5, sempre della L.Q. 1/2013 viene imposto inderogabilmente che il Collegio decida entro venti giorni dall’udienza. Il comma recita infatti: ”Il Collegio Garante deve pronunciare la propria sentenza nel termine di venti giorni dalla data di convocazione e, prima di dichiarare l’eventuale inammissibilità, può richiedere al comitato promotore chiarimenti ed integrazioni della relazione della proposta, fissando un breve termine per la risposta’

La scadenza era dunque il 21 settembre. La sentenza, invece, è stata datata 22 settembre e trasmessa via PEC nello stesso giorno, addirittura con attestazione il 23. Si è sostenuto che, cadendo il termine in domenica, valesse la regola generale del deposito il giorno seguente. ma questo argomento regge poco se riferito a una trasmissione telematica: l’eccezione “da cancelleria” nasce per il deposito fisico; via PEC non vi era alcun impedimento oggettivo a trasmettere anche domenica 21.

Il punto non è formalistico: se il termine è perentorio, la decisione oltre il ventesimo giorno è viziata, perché incide sulla speditezza che tutela il diritto politico dei cittadini a ricevere una risposta entro un tempo certo.

Il SECONDO SNODO, forse ancor più problematico, attiene al referendum promosso dal Partito Socialista sul medesimo tema dell’associazione all’UE.

L’udienza fissata al 22 settembre 2025 è stata rinviata, con comunicazione del 19 settembre, al 6 ottobre per l’impossibilità dichiarata di due membri a presenziare.

Qui la L.Q. 1/2013 parla chiaro in più passaggi: l’articolo 9 prevede la convocazione del Collegio entro venti giorni dalla comunicazione della Segreteria istituzionale; l’articolo 10, comma 5, stabilisce che il Collegio DEVE pronunciare la sentenza entro venti giorni dalla convocazione.

TUTTO CIO’ NON E’ STATO FATTO E NON SI FARA’ E TUTTO CIO’ NON SI FARA’!

L’uso del verbo “DEVE” connota un termine perentorio dato che non vi è scritto PUO’; la legge non contempla sospensioni o proroghe per “forza maggiore”.

Spostare l’udienza al 6 ottobre significa collocare l’attività del Collegio FUORI DALLA CORNICE LEGALE, con un vizio che può travolgere la validità dell’udienza stessa se verrà, come dovrà essere, appellata in sede CEDU.

Sul piano politico-istituzionale, il rinvio oltre i venti giorni ha persino l’effetto di far svolgere l’udienza dopo la visita del Commissario europeo, circostanza che alimenta ulteriori perplessità sull’opportunità della scelta.

A tutto ciò si aggiunge un profilo di INCOMPATIBILITA’. Il Collegio, nella stessa composizione che ha deciso il caso CapiFamiglia, si trova a pronunciarsi di nuovo, su materia sostanzialmente identica, per il quesito socialista.

In termini di correttezza istituzionale e di terzietà, giudicare due volte lo stesso oggetto, dopo essersi già espressi nel merito, espone l’organo a un evidente rischio di conflitto di interesse funzionale.

L’imparzialità non riguarda solo i giudici in senso stretto: è un requisito che deve permeare gli organi di garanzia costituzionale, soprattutto quando comprimono o abilitano diritti politici primari.

Vi è poi la questione della COERENZA GIURISPRUDENZIALE. Nel 2010, con la Sentenza n. 4/2010, il Collegio aveva ammesso un quesito di contenuto assai vicino, qualificandolo come atto di indirizzo politico e circoscrivendo il divieto referendario in materia internazionale ALLE SOLE RATIFICHE DEFINITIVE, non alle fasi pre-negoziali.

La L.Q. 1/2013 non ha ristretto quello spazio: al contrario, ha valorizzato il favor referendum, prevedendo strumenti propositivi e di indirizzo e concentrando il vaglio del Collegio sui requisiti formali e sulla chiarezza.

Nel 2025, però, con la sentenza sul quesito dei CapiFamiglia, il Collegioha dichiarato l’iniziativa irricevibile e inammissibile perché ritenuta “tardiva” o “prematura” in rapporto all’andamento delle negoziazioni UE.

Il mutamento di rotta non risulta ancorato a una modifica normativa sostanziale; è, in termini tecnici, un revirement che necessita di una motivazione particolarmente robusta, altrimenti genera incertezza giurisprudenziale, molto volte sanzionata dalla stessa CEDU.

Su questo terreno si innestano i principi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. L’articolo 6 CEDU, che tutela il diritto a un equo processo, comprende anche la certezza del diritto e la prevedibilità delle decisioni. La Corte di Strasburgo ha chiarito più volte che la giurisprudenza contraddittoria, specie se proviene dal medesimo organo e non è accompagnata da un’adeguata motivazione, viola la Convenzione.

Ci sono casi paradigmatici in cui la Corte ha ritenuto che l’incoerenza sistemica delle decisioni interne producesse una CONFUSIONE GIURIDICA incompatibile con l’articolo 6.

Lo stesso principio è stato ribadito nella grande camera in altre sentenze dove è stata stigmatizzata la divergenza giurisprudenziale ingiustificata per gli effetti corrosivi sulla fiducia dei cittadini nell’ordinamento.

A ciò si affianca l’articolo 3 del Protocollo n. 1 CEDU, che tutela il diritto a partecipare alla vita democratica: la Corte lo interpreta in modo ampio, includendo gli strumenti di consultazione popolare come i referendum. Se i termini perentori non vengono rispettati e se l’orientamento giurisprudenziale oscilla senza solide ragioni, la partecipazione perde effettività e il diritto politico viene svuotato.

Un ULTERIORE PROFILO, emerso nella motivazione della decisione sul primo quesito, riguarda la gestione delle firme. A fronte di 78 sottoscrizioni, ne sono state ritenute valide 59 e considerate “insuperabili” una serie di irregolarità, tra cui mancate autenticazioni e riferimenti errati alle liste che di fatto sono oltremodo superabili.  Nello stesso testo, però, si ammette che taluni errori possono rientrare nell’alveo del favor partecipationis.

Questa oscillazione applicativa, oltremodo severa su alcuni aspetti e più elastica su altri, solleva un dubbio di fondo: se l’ordinamento privilegia la sostanza della volontà popolare quando l’errore non incide sull’identificabilità dell’elettore o sulla genuinità della sottoscrizione, perché non applicare in modo coerente quel criterio di favore? la coerenza di metodo non è meno importante della coerenza di diritto.

L’insieme di questi elementi compone un quadro che interroga tanto la legalità formale quanto la legittimazione sostanziale delle decisioni:

– una sentenza oltre il ventesimo giorno in un procedimento che la legge vuole celere;

– un’udienza rinviata fuori tempo massimo senza base normativa che preveda proroghe;

– la stessa composizione chiamata a giudicare due volte la medesima materia;

– un revirement rispetto al 2010 non sorretto da novità legislative;

– una gestione delle irregolarità formali non sempre allineata al favor referendum.

Ne discende un problema di parità delle armi: ai cittadini promotori si richiede l’osservanza rigorosissima di ogni comma e di ogni formalità, mentre l’organo di garanzia sembra potersi concedere margini che la legge non contempla.

Questa asimmetria, nel cuore dello strumento di democrazia diretta, non è sostenibile.

San Marino ha costruito la propria autorevolezza istituzionale sulla libertà e sulla partecipazione civica.

Proprio per questo, nei referendum la forma è sostanza: tempi certi, imparzialità e coerenza interpretativa non sono orpelli, ma condizioni di validità per tutti.

Rispettarle significa garantire che la voce popolare non sia solo ascoltata, ma anche messa nelle condizioni di incidere davvero: la credibilità della democrazia diretta, oggi, passa da qui.

Marco Severini direttore GiornaleSM

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