La riforma del sistema pensionistico non è una sfida: è la necessità, anzi l’urgenza, di colmare un ritardo atroce. I dati sono noti ed inequivocabili: nel 2021 si prevede un disavanzo di 50 milioni per i dipendenti e di 7 milioni e mezzo per gli autonomi. A questi si aggiungono i disavanzi degli anni scorsi, portando il sistema ad un disequilibrio non più sostenibile. La progressiva erosione dei fondi pensioni, fa prevedere il loro totale azzeramento entro il 2030.
Stesso disequilibrio nel rapporto tra lavoratori/pensionati. Infatti, all’epoca della riforma dell’83 era di 6 lavoratori per ogni pensionato, oggi sulla base dei dati di inizio 2021, il rapporto è di 2,56 lavoratori per ogni pensionato.
Non è facile districarsi tra favole metropolitane, luoghi comuni, strumentalizzazioni sia politiche, sia sindacali. Perciò rimaniamo fermi sui dati. Su circa 11 mila pensionati, la metà è sotto i 1500 euro al mese; un centinaio sopra i 3000; tutti il resto sta nel mezzo. Quindi, sfatato il mito delle pensioni d’oro, appare evidente che “tagliare le pensioni” come teme il sindacato, che ha già messo le mani in avanti, non porterebbe un beneficio strutturale. Anzi, l’eventuale sacrificio verrebbe annullato in pochissimo tempo. Quindi, non è quello l’elemento che può risolvere il problema.
Va da sé che bisognerà ragionare sugli altri due elementi: l’età pensionabile e la contribuzione. Non a caso, in Consiglio, l’avvio del dibattito sulla riforma pensionistica è stato allineato a quello sulla riforma del lavoro. Un doppio canale obbligatorio perché più lavoro significa più contributi e quindi maggiore sicurezza sulle pensioni. Poi, le particolarità da affrontare sono tante: dai lavori usuranti al fatto che oggi si comincia a lavorare dopo i 25, o anche dopo i 30 anni; che i lavori stabili, cioè a tempo indeterminato sono sempre meno, che la flessibilità è ormai un imperativo, eccetera, eccetera.
Mortificante l’ascolto del dibattito consiliare, che si è perso in stucchevoli rivendicazioni dell’opposizione, che come sempre ha solo l’obiettivo di allontanare il problema, e che avrebbe detto le stesse cose se in aula fosse arrivata la riforma già strutturata. Non è difficile immaginare gli interventi: governo autoreferenziale, mancanza di dialogo, maggioranza arrogante, soluzioni preconfezionate, e via dicendo.
Nessuno ha colto l’importanza di un dibattito impostato sul combinato disposto: lavoro/pensioni, che devono andare di pari passo e incontrarsi sullo stesso percorso.
Non si è sentito nessun ragionamento sul fondo pensioni, un fondo di riserva istituito a suo tempo con molta lungimiranza per essere usato nei momenti di crisi. Ma esiste ancora, o c’è solo sulla carta? Erano 500 milioni fino a qualche tempo fa, pare che siano ridotti a 410, distribuiti nelle banche. Sono sempre lì? O da qualche parte sono spariti nei canali carsici della finanza sammarinese? Come gli oltre 100 milioni dell’ex banca CIS, di cui nessuno dice più niente!
Per demolire il tabù della riforma pensionistica e portare equilibrio su tutti e tre gli elementi su cui bisogna agire: prestazioni, età, contributi, potrebbe essere utile valutare la possibilità di usare il fondo pensioni per accompagnare la riforma in un percorso dinamico, che possa essere aggiornato sulla base di eventuali modificazioni del mercato del lavoro, della piramide sociale, della struttura sociale, delle aspettative di vita della popolazione.
Fermarsi al protezionismo del proprio orticello, come già qualcuno ha cominciato a fare, non porterà buoni risultati per nessuno.
a/f