Ah, la Repubblica di San Marino, quel gioiellino incastonato nelle rocce appenniniche che non smette mai di stupire con le sue tragicomiche commedie – oggi fiscali – degne di un teatro dell’assurdo.
Proprio quando pensavi che il Titano avesse toccato il fondo con dibattiti infiniti quisquiglie, ecco arrivare la riforma IGR – Imposta Generale sul Reddito, per i non addetti – che ha trasformato il pacifista tran tran sammarinese in un’arena da gladiatori. Ieri l’ultimo, in ordine temporale, atto: la sospensione della Commissione Finanze, annunciata come un fulmine a ciel sereno, con il relativo avvio di un “tavolo di confronto” fra governo e sindacati. Un colpo di scena che sa di ripiego disperato, dopo lo sciopero generale del giorno prima che ha paralizzato il Paese con una partecipazione da record: piazze piene, presidi sul Pianello, marce con striscioni e discorsi infuocati contro una riforma accusata di mettere le mani nelle tasche di lavoratori e pensionati.
Ma andiamo con ordine, pur correndo il rischio di essere ripetitivi, perché qui non si tratta solo di numeri, ma di un circo dove tutti urlano e nessuno spiega davvero il trucco.
Partiamo dai fatti nudi e crudi, quelli che non mentono nemmeno sotto tortura. La riforma, come emerso dalle sedute della Commissione Finanze – quella di ieri mattina, per intenderci, dove sono stati approvati gli articoli dal 12 al 19 prima del grande stop – mira a un obiettivo ambizioso: incrementare il gettito fiscale di circa 20 milioni di euro annui in modo strutturale. Non bruscolini, insomma, ma una boccata d’ossigeno per le casse pubbliche prosciugate. Per i residenti e cittadini sammarinesi, l’impatto varia: la no tax area schizza del 40%, passando da 10.000 a 14.000 euro, alleggerendo il carico sui redditi più bassi. E per i pensionati? Qualche ritocco, ma niente di catastrofico se si guarda ai numeri.
Il vero nodo, però, sembrano essere i frontalieri, quei pendolari dall’Italia che tengono in piedi buona parte dell’economia del Titano e che sono afflitti dalla seconda tassazione italiana. Ma anche qui, niente drammi, seppure anche 10 euro oggi siano importanti. Ricordiamo un esempio concreto che vi ho già sottoposto, ma è determinante, non solo importante ricordarlo: un lavoratore residente in Italia con reddito lordo annuo di 26.000 euro (circa 1.700 netti al mese più TFR). Con la Smac al massimo – quel meccanismo di detrazioni che diventa obbligatorio e non più opzionale – l’aumento fiscale si attesta sui 40 euro mensili. Ma attenzione: per sbloccare il beneficio massimo di 900 euro annui, serve spendere almeno 6.000 euro in Repubblica. Se ci si limita a 2.400 euro (tipo benzina, caffè quotidiani e aperitivi settimanali), il credito scende a 360 euro, portando l’aggravio totale a circa 60 euro al mese su quel netto da 1.700 euro per 13 mensilità. Ridicolo (non nella cifra), se confrontato con le profezie apocalittiche circolate: si parlava di aumenti del 200% per i frontalieri, basati su analisi di studi italiani che sembravano più voodoo che contabilità. Dal 2026, poi, l’Italia taglierà le aliquote sui redditi medi, mitigando ulteriormente il colpo.
E per le imprese? Un’addizionale temporanea dell’1% sull’IGR dal 2026 al 2030, che porta l’aliquota dal 17% al 18%. Un keynesiano direbbe: “Cari governanti, invece di spremere i redditi, perché non investite in un piano di sviluppo? Tipo incentivi per le imprese tech che scappano in Irlanda, o un turismo che non viva solo di Rally Legend e due selfie sul Pianello?”. E non avrebbe torto, visto che la teoria di partorita dal genio di John Maynard Keynes sosteneva che in tempi di crisi economica – tipo quando le casse pubbliche sono più vuote di un bar all’alba – lo Stato deve intervenire attivamente. Come? Spendendo, anche a costo di fare ulteriore debito, per stimolare la domanda aggregata (consumi, investimenti, occupazione). L’idea è che se i cittadini non spendono perché sono al verde o spaventati, il governo deve tirare fuori il portafoglio: infrastrutture, sussidi, incentivi, tutto pur di rimettere in moto l’economia. Il deficit? Un male necessario, da ripagare quando le vacche tornano grasse. Tasse? Vanno modulate con cura, perché alzandole troppo in recessione si strangola la ripresa, ma tagliarle senza criterio rischia di lasciare lo Stato senza benzina.
Ma un misero 1% non sembra un aumento capace di scatenare la devastazione economica, anche perchè resta non poco inferiore a quanto “estorce” appena oltre confine l’Irpef… Ma torniamo a ditte, aziende, e società. Anche in questo caso si conferma che i sacrifici sono ripartiti fra chi può permetterselo, come dice il governo, e i numeri gli danno ragione: alleggerimenti in basso, ritocchi in alto, con emendamenti che armonizzano regole per ditte individuali e società, allineandole a standard internazionali.
Ma ecco il colpo di teatro: lo sciopero del 23 settembre, un successo evidente che ha visto sindacati come Csdl, Cdls e Usl uniti in un fronte compatto, con piazze gremite e accuse al governo di ignorare le famiglie in crisi. “È solo il primo atto”, tuonano ora opposizioni e sindacati, pronti a una “lotta di lungo respiro” e senza esclusione di colpi se la riforma non viene fermata. E il governo? Invece di anticipare il confronto – perché, diamine, i tavoli si aprono prima di presentare leggi, non dopo – ha sospeso la Commissione serale di ieri, rinviandola a oggi pomeriggio, e ha inaugurato questo benedetto dialogo con i sindacati. Un passo indietro? O un modo per guadagnare tempo, facendo passare indenni palcoscenici che potrebbero ingolosire “le teste calde”, come la cerimonia di insediamento dei nuovi Capitani Reggenti e il Rally Legend? Dovessi scommettere punterei su quest’ultima strategia governativa… E se fosse, in fondo, applaudirei la scaltrezza!
In ogni caso, immagino già lo spettacolo: i sindacati, rinvigoriti da un’organizzazione che pareva moribonda e ora resuscitata come Lazzaro, punteranno a cancellare ogni aumento per lavoratori, pensionati, sammarinesi e frontalieri. Suggeriranno, con la solita retorica (non solo sindacale), di combattere l’evasione: peccato che la riforma già introduca controlli automatici – non più discrezionali – su imprese che dichiarano utili sotto una certa soglia nel triennio precedente. Oppure invocheranno la bacchetta magica del recupero crediti: milioni da ottenere da aziende fallite, scomparse o defunte. Bella idea, come chiedere i soldi a uno scheletro, di fronte al quale persino uno strozzino si arrenderebbe.
Il rischio? Che questo confronto finisca in un vicolo cieco, con animi sempre più accesi e un sindacato entusiasta che cavalca l’onda. Il governo, in assenza di proposte sensate che mantengano l’equilibrio – perché sì, i sacrifici sono ripartiti e necessari – tirerà dritto per non compromettere quei 20 milioni vitali. E qui entriamo nel cuore buio della faccenda: perché servono questi soldi? Nessuno lo dice chiaro, tra urli populisti delle opposizioni e silenzi della maggioranza. Secondo la mia esperienza di osservatore attento, sembrano essere la conseguenza di centinaia di milioni bruciati nel decennio scorso da un “gruppo criminale” che ha scalato le istituzioni, raggiungendo l’apice sotto il governo Adesso.sm, con Repubblica Futura (RF) al timone, affiancata da SSD e Civico 10, oggi confluiti in Libera, forza di governo.
RF ora sbraita contro la riforma, dimenticando che proprio quando governava, il sistema bancario sammarinese è stato devastato, con conseguenze sui conti pubblici finiti in rovina e un debito miliardario che oggi pesa come un macigno, ingoiando interessi annui da capogiro.
Il governo tace, forse, probabilmente perché una fetta di quel passato (gli ex di C10 e SSD) è ancora dentro le Segreterie di Stato e in maggioranza, al fianco di chi denunciava invano. Ma al di là del mio pensiero, i numeri, calcolatrice alla mano, non perdonano: quel disastro, di chiunque sia la responsabilità politica (una Commissione consigliare d’inchiesta lo svelerebbe) ha contribuito al buco attuale.
E le tensioni? Alimentate ad arte da previsioni inverosimili sui frontalieri (e non solo), che hanno trasformato una riforma equilibrata in un mostro. Preoccupa l’autunno caldo che si profila: irresponsabilità da un lato, reticenza dall’altro. Occhio al 1° ottobre, giorno sacro dell’insediamento della nuova Reggenza, e al Rally Legend dal giorno dopo, evento internazionale non da spiccioli di euro in indotto, su cui grava un blocco frontaliere minacciato che sarebbe l’autogol del secolo, con sindacati e opposizioni a caccia di visibilità mentre il Titano rischia di contare i cocci.
In conclusione, sì, la riforma aumenta le tasse – e come no, quando i conti pubblici urlano fame? Si potrebbe alleggerire la spesa, certo, smontando il clientelismo che ha gonfiato la PA negli ultimi decenni, con assunzioni inutili a pioggia da chiunque abbia governato. Ma chi ha il coraggio per licenziare una fetta non trascurabile di dipendenti pubblici forse superflui (cosa che farebbe incavolare peraltro il sindacato)? Sensato? Produttivo? Forse, ma in un Paese dove la politica troppe volte sembra essere un circo, meglio non scommetterci.
Alla fine, tutti parlano, ma nessuno risponde alla domanda da un milione: a che “minchia” servono quei 20 milioni in più, caro Segretario di Stato alle Finanze Marco Gatti? Il Titano attende, tra ironie, minacce e silenzi…
Enrico Lazzari