E’ battaglia politica, destinata a varcare la soglia del tribunale amministrativo, se non addirittura quella del Consiglio d’Europa. Al centro della disputa la “pastrocchiata” legge elettorale modificata nel 2016, rimodificata nel 2019, poi, con le stesse “rimodifiche” a loro volta riformulate pochi mesi dopo. Un “pateracchio” pieno di lacune, di situazioni -anche ovvie- non contemplate in merito a vicende che, oggi più che mai, richiederebbero una interpretazione univoca e chiara.
Da una parte la maggioranza “entrante”, dall’altra l’opposizione, pressochè compatta e trainata da Libera, dove si parla addirittura di “colpo di stato”. Ambedue le fazioni, però, forti di interpretazioni della legge che ritengono fondate e che appaiono diametralmente opposte una dall’altra, sono determinate a “tirare dritto” per la loro strada.
Si arriverà allo scontro, con la nomina da parte del Consiglio Grande e Generale, il prossimo 20 giugno, di due nuovi membri del Congresso di Stato (Gian Nicola Berti di Alleanza Riformista agli Affari Interni e -probabilmente- del democristiano Gian Carlo Venturini alla Sanità) in luogo dei dimissionari Elena Tonnini e Roberto Ciavatta, ambedue di Rete. Una nomina che indurrà Libera, probabilmente affiancata da gran parte dell’opposizione consigliare, a presentare un ricorso amministrativo in tribunale e, al contempo, un esposto al Consiglio d’Europa, massimo organismo continentale di tutela della democrazia.
Ma qual è la giusta interpretazione? Impossibile, al momento, azzardare una “sentenza” in merito. Tutti stanno giocando con il fuoco.
Ma proviamo a capire, partendo dalla constatazione del fatto che la legge elettorale vigente non prevede disposizioni in materia di sostituzione di membri del Congresso di Stato. E tutto il caos interpretativo parte proprio da qui, visto che, di fatto, dal punto di vista puramente formale, il governo non è mai stato sfiduciato. Certo, ha perso due decimi dei suoi ministri, ma -sempre dal punto di vista formale- è in carica dal momento in cui si è insediato nel rispetto di tutti i requisiti imposti dalla normativa tuttora vigente. E logica vuole che un governo non sfiduciato non necessiti di un voto di fiducia per continuare.
Se, invece, nella prossima sessione del Consiglio Grande e Generale dovesse comparire e conquistare la maggioranza dei voti una mozione di sfiducia al governo, non ci sarebbe alcun dubbio: per evitare elezioni si dovrebbe trovare una maggioranza di almeno 35 seggi consiliari fra gli eletti della coalizione di maggioranza. Ma così non è… E non ci sono i numeri parlamentari perchè possa accadere.
La situazione attuale -ovvero la sostituzione di due Segretari di Stato- non è invece codificata dalla Legge, mentre lo è chiaramente nelle norme sul Congresso di Stato (di rango superiore, quindi in caso di non allineamento delle norme prevarrebbero queste), secondo le quali ogni sostituzione in seno al governo può essere fatta con la maggioranza semplice dei “Sessanta”.
Ma anche ciò non dipana l’intricata matassa. Secondo l’opposizione non si può ignorare la norma della legge 1/2007 che all’art.6, comma 7, sancisce che “la dichiarazione di appartenenza alla coalizione deve riportare l’espresso impegno a costituire insieme una maggioranza di governo per l’intera legislatura”, mantenendo “la forma aggregativa con cui si sono presentate alla consultazione elettorale”. E qui starebbe la base dell’interpretazione che -secondo la minoranza consigliare- porterebbe necessariamente al voto anticipato. Infatti, secondo questa “lettura” la presenza in maggioranza e nel governo di Motus Liberi, coalizzata in Domani in Movimento al fianco di Rete, oggi fuoriuscita dal governo, porterebbe a soli 29 seggi la maggioranza valida. Anzi, essendo Rossano Fabbri eletto in Libera, a 28…
Interpretazioni diametralmente opposte, quindi, che non potranno che portare allo scontro… Ma chi ha ragione fra le due “fazioni”?
C’è un precedente. Era il 2011 quando il governo sostenuto da 32 consiglieri, poi diventati 35 con il premio di maggioranza, perse il sostegno di EPS che ritirò il suo Segretario di Stato, Gian Marco Marcucci, con l’intenzione di far cadere il governo. La maggioranza passò da 35 a 32, ma la legislatura andò ugualmente avanti con la nomina del democristiano Francesco Mussoni in sostituzione del dimissionario Marcucci.
Ma, si sa, non esistono situazioni fotocopia, per quanto simili. E l’incertezza resta oggi -nonostante il precedente- più che motivata, anche se a far pendere un poco l’ago della bilancia verso l’interpretazione che intende legittima la sostituzione dei ministri dimissionari c’è l’indirizzo della Dichiarazione dei Diritti, una sorta di Costituzione sammarinese, in materia di “Suffragio Universale”, ovvero -”tradotto”- alla volontà popolare espressa nel voto.
L’applicazione di questo principio -peraltro ribadito dal Collegio Garante nel 2019, in una sentenza sull’ammissibilità di un referendum- unita alle chiare norme della Legge sul Congresso di Stato, potrebbe colmare in un preciso senso -l’interpretazione della maggioranza- le pesanti lacune della Legge Elettorale.
Vedremo. Le strade possibili, comunque, vista la pressochè conclamata impossibilità di andare al voto prima del prossimo mese di marzo, sono essenzialmente due:
– la maggioranza tira dritto e il prossimo 20 giugno nomina i sostituti di Tonnini e Ciavatta in Congresso di Stato, con l’opposizione che avvierà ricorsi amministrativi ed esposti al Consiglio d’Europa;
– tutte le forze parlamentari, maggioranza e opposizione, trovano un accordo per un governo di emergenza che gestisca la normale amministrazione e, soprattutto, riscriva da zero la nuova legge elettorale… Magari, questa volta, in maniera saggia e chiara.
Enrico Lazzari
