Nella lunga scia di commenti e di reazioni alla sentenza Mazzini, nessuno si è accorto, né ha accennato al fatto che la vicenda Mazzini e la relazione della Commissione di inchiesta banche, sono due facce della stessa medaglia. Anzi la stessa faccia. Con la sola differenza che il processo Mazzini è stato usato come il prezzemolo, in tutte le salse, con una nutrita schiera di forcaioli che ancora invocano una condanna a prescindere; mentre sui risultati di due anni di indagine della Commissione, è stata stesa la nebbia del silenzio. Perché?
Eppure, in entrambi i casi si narra di un sistema di corrotti e corruttori che, nel quadro del progetto di una piazza finanziaria, faceva proliferare tutto un parterre di figuranti senza scrupoli. Era il famoso “sistema San Marino” che privo di un substrato normativo serio e di qualsiasi controllo, permetteva qualsiasi affare.
Erano gli anni in cui “stavamo bene” perché l’enorme afflusso di denaro permetteva privilegi che in altri Stati erano impensabili. Tutto ciò era ben noto a molti. Gli altri non sapevano o se sapevano tacevano.
L’apertura dell’inchiesta denominata “Mazzini” fu salutata da tutti come l’occasione per mettere fine ad un modo di procedere che stava rivelando tutte le sue opacità. Era da poco scoppiato il “caso Varano” e l’indagine “Re nero”. La crisi internazionale mordeva e San Marino non aveva gli strumenti per qualificarsi con serietà, competenza e credibilità. Troppi scandali. Troppe irregolarità.
Chi avesse la pazienza e la costanza di andarsi a leggere le due relazioni della Commissione può verificare il degrado morale e il senso di impunità distribuiti un po’ ovunque. In particolare la relazione su Banca CIS squarcia il velo sulle nefandezze, le omertà, le collusioni e il disastro operato non tanto e non solo sul tessuto finanziario della Repubblica in almeno tre lustri, ma anche sulla sua architettura politica, istituzionale e giurisdizionale. È un quadro totalmente marcio in cui le responsabilità, più o meno forti, di personaggi, partiti e governi è diventato finalmente palese.
In più svela che il giudice inquirente Alberto Buriani, già all’epoca, aveva contatti ravvicinati e frequenti con i vertici di quella banca. C’è lo zampino di Grandoni, Guidi, Lazzari nelle indagini sul conto Mazzini? Non lo sapremo mai, però sappiamo che lo smantellamento di un’intera classe politica dirigente ha dato il via libera all’insediamento di un’altra classe politica dirigente connessa con quel gruppo bancario e tutti i suoi accoliti. Gli effetti si vedono ancora.
Tutta la storia che ruota intorno al maxi processo prende le sembianze di un pasticcio incredibile, un nodo gordiano di interessi che con la giustizia avevano a che fare solo per scopi diversi, che sono stati la causa dei guai che San Marino sta ancora vivendo. Ma con il senno di poi, il processo Mazzini appare sempre più come il locus commissi delicti, la scena primaria del crimine, cioè l’occasione da cui è partito tutto il resto. Questo fa male al cuore e delude profondamente, perché tutti avevano sperato nel primo atto di pulizia. Una sorta di “sindrome dipietrista” aveva preso tutta San Marino.
Col senno di poi, chi è più in malafede, quei cittadini che portavano le arance davanti ai Cappuccini, o quei politici di spicco che ancora invocano il Crucifige a prescindere da tutto?
Oggi, che la storia ci viene sbattuta in faccia dalle carte del tribunale e dalle due relazioni, ci si rende conto ogni giorno di più che molti non hanno ancora capito niente, o fanno finta di non capire. Eppure, i conti con la storia prima o poi dovranno essere fatti.
La sentenza di primo grado aveva acceso i titoli di tutti i giornali: richiesti 121 anni di galera e oltre 2 miliardi di sequestri. Se oggi sono stati tutti assolti (tranne due) e se le richieste di risarcimento toccano circa 9 milioni, c’è qualcosa che non quadra. Nel frattempo, il capo del pool inquirente è stato rinviato a giudizio. Ci sono sette fascicoli penali pendenti sul suo capo. È un elemento che mette sotto accusa l’intero sistema giudiziario sammarinese degli anni ruggenti.
A volte basterebbe ascoltare quello che dicono i cittadini, che forse non sono addentro alle segrete cose, ma che hanno una sensibilità molto spiccata. Come quel signore che commentava l’assoluzione (e non il proscioglimento) tra un bicchiere di bianco e un asso di briscola: se non c’era il reato, ci volevano dieci anni per capirlo?
Per troppo tempo non si è capito se fosse il tribunale a condizionare la politica o viceversa. Il fatto che oggi le riforme appena effettuate abbiano fatto chiarezza è un passaggio importante. Come non bisogna sottovalutare il tentativo giornaliero di qualche politico e di qualche giornale di condizionare l’operato del tribunale. Addirittura lanciando accuse al nuovo magistrato dirigente, che è qui da un anno appena. Ma per quanto si sbraccino, è molto difficile che tutto ritorni com’era prima.
È finita? Sì è finita, anche se rimane un profondo senso di delusione per le conseguenze che strappi così profondi comunque lasciano nel tessuto della storia e nel vissuto delle persone. E perfino anche il più semplice dei cittadini ha capito che un conto è il giudizio del tribunale, che viaggia su registri fatti di leggi, di documenti e di prove; un conto è il giudizio politico e il giudizio morale che ciascuno si è fatto sulle persone, sui governi e su un periodo storico.
In ogni caso, non sono per niente finiti i riti della politica. Aspettiamoci nel prossimo Consiglio un comma comunicazioni monopolizzato da ulteriori commenti sul processo del secolo, dove ancora una volta non mancherà il tentativo di alzare il polverone sui fatti di 20 anni fa, per far dimenticare quel miliardo e mezzo perso durante la legislatura firmata da Adesso.sm, quando imperava la cricca sotto la regia lussemburghese.
a/f