Due dubbi mi attanagliano all’indomani della sentenza di primo grado emessa dal Giudice Simon Pietro Morsiani nei confronti di Gabriele Gatti e Clelio Galassi.
Il primo è: su che base giuridica, dopo che anche il Procuratore del Fisco, Roberto Cesarini, ne aveva chiesto praticamente l’assoluzione, si fonda la condanna di Gatti? Apparentemente nessuna…
Anzi, questa, appare palesemente in contrasto con i principi ribaditi dal Collegio Garante, nonché con quanto, specie in materia di confische e sulla base della stessa disposizione del Collegio, ha ispirato il Giudice Francesco Caprioli nella definizione della sentenza di assoluzione del Processo Mazzini.
Ma al di là dei tecnicismi giuridici -più comprensibili agli addetti ai lavori che non a noi “atei” del Foro-, pur nella prudenza imposta dall’attesa delle motivazioni vere e proprie della sentenza, la condanna di Gatti appare al momento e sulla base del semplice dispositivo quasi “assurda”, specie se analizzata unitamente all’assoluzione del coimputato nello stesso processo, ovvero Clelio Galassi, assolto da tutti i capi di imputazione perchè il fatto non costituisce reato per i fatti posteriori al 13 agosto 2013 e assolto perchè i fatti non costituivano reato prima del 13 agosto 2013. In pratica una assoluzione piena, come spiega chiaramente il difensore di Galassi, l’Avv.Alberto Selva il cui lavoro si è rivelato decisivo per l’affermazione dell’innocenza del suo assistito: “La sentenza significa -spiegava soddisfatto- che i fatti contestati a Galassi erano leciti, sia quelli dopo l’entrata a regime della legge sull’autoriciclaggio del 2013 che quelli, perchè nessuna legge li vietava- antecedenti alla stessa data”.
Assoluzione piena che, sulle stesse basi, tutti si attendevano anche per Gatti, specie dopo l’arringa finale del Procuratore del Fisco, dell’accusa, secondo cui tutti i fatti antecedenti gli effetti della norma sull’autoriciclaggio non potevano costituire reato perchè non vietati da nessuna legge e secondo cui tutti i fatti successivi alla stessa data non potevano essere riconosciuti reati perchè semplici movimentazioni, non finalizzate all’occultamento, di soldi già disponibili in precedenza.
Cosa ci sarebbe, quindi, alla base della condanna di Gabriele Gatti? Secondo quanto si può dedurre dal dispositivo della sentenza -ma è prudente attendere le motivazioni- ci sarebbero degli “atti di trasferimento, occultamente e sostituzione delle provviste”. Ma come si può sostenere, visto che il semplice spendere o trasferire da un conto, da un investimento all’altro riconducibili allo stesso beneficiario originale, incarni una pratica di occultamento, condizione essenziale affinchè si possa parlare di autoriciclaggio? Del resto, anche Galassi ha utilizzato le provviste per spese personali -se ben ricordo per l’acquisto di un appartamento oltre confine-, ma in questo caso queste non sono state riconosciute -come appare giusto e conforme a giurisprudenza- come atti “di trasferimento, occultamente e sostituzione delle provviste”. Due pesi e due misure? Vedremo quando la sentenza sarà pubblicata con tanto di motivazioni.
E non addentriamoci profondamente, poi, nel concetto di “reato presupposto”, dove le interpretazioni oggi non sono ancora, forse a causa della “giovinezza” della norma, così chiare. Se nessuna condotta ha, come si deduce dal dispositivo della sentenza, violato la legge, quale è il reato che motiva la provenienza illecita di quei fondi, altra condizione essenziale perchè si possa parlare di riciclaggio?
Del resto, durante il dibattimento sono emerse testimonianze inequivocabili. Come quella dei responsabili dell’AIF, secondo la quale nei 30 anni di movimentazioni dei conti di Gatti, analizzate approfonditamente, non sarebbe emersa alcuna anomalia… Ma, come detto, ne sapremo di più quando le motivazioni della sentenza saranno pubblicate. Per ora, quanto evidenziato resta il semplice dubbio, il ragionamento logico e non giuridico di un “estraneo” ai tecnicismi della Giustizia…
Il secondo dubbio, invece, è sul futuro politico di Gabriele Gatti, il quale in maniera neppure troppo sibillina ha comunicato -dopo aver ufficializzato il ricorso in appello- che se fare o non fare politica lo decide lui e non un giudice, definendo politica la sentenza di condanna di primo grado.
“A caldo avevo dichiarato che il mio è un processo politico -ha scritto- ora a mente fredda sono certo che l’intento è quello di impedirmi di fare politica”.
“Nessuno potrà intimorirmi o mettermi a tacere -ha aggiunto- se fare politica lo decido io e non un giudice. In passato ho fatto un passo indietro in politica, oggi anche alla luce di quanto è successo sento di poter fare un passo in avanti”.
Cosa intende per “passo avanti”? Di certo un suo ritorno, in prima persona, dell’impegno in politica. Difficile ipotizzare fin da ora in che modo. Non appare probabile che possa mettersi alla testa di un “suo” e nuovo partito. Come non appare probabile che pensi ad un suo ritorno in ruoli di vertice o di governo. Ma è innegabile che a soli 69 anni, dopo una vita dedicata alla politica, peraltro per tantissimi anni nel ruolo di riferimento sammarinese dei governi e dei partiti italiani ed europei, e non solo, la sua esperienza potrebbe essere un “bene”, un “valore” quanto mai “spendibile”, se non nell’opinione pubblica (soggetto semplicistico, superficiale e manipolabile sul quale l’impatto sarebbe davvero difficile da prevedere, seppure il concetto “andava meglio quando era peggio” si afferma sempre più in questo periodo di crisi senza luce in fondo al tunnel) di certo nelle classi produttive del Paese e nelle relazioni internazionali, più attente a competenze ed esperienze che non alla “propaganda”.
Anche questo secondo dubbio troverà risposta in futuro, probabilmente dopo la sentenza di appello che, alla luce della Giurisprudenza, sembra destinata a ribaltare l’apparentemente controversa condanna di questo primo grado di giudizio.
Enrico Lazzari