San Marino. Suor Maria Gloria Riva e le e le Monache dell’Adorazione Eucaristica: una storia del passato che vive oggi. Con un futuro fatto di speranza … di Angela Venturini
(seconda parte)
Parlando con una grandissima esperta di arte, qual è suor Maria Gloria Riva, non potevamo non accennare all’hortus conclusus, tipico giardino medievale, nato nei monasteri dove veniva utilizzato per la coltivazione di piante alimentari e medicinali. Chiuso da quattro alte mura, sempre con una fontana al centro (simbolo di Cristo e fonte della vita), divenne rapidamente emblema del paradiso perduto. Esempi anche molto belli li troviamo in quadri, dipinti e miniature, spesso accanto ai santi. Per le Monache Adoratrici, l’hortus conclusus è diventato un progetto già all’inizio del loro insediamento a San Marino, ora ampiamente realizzato, come racconta suor Gloria.
“Quando siamo arrivate in questo monastero, abbiamo trovato un chiostro interno piccolissimo, tutto pavimentato, senza uno sbocco esterno, mentre l’esperienza monastica vive del rapporto con la natura. Gli antichi monaci che lavoravano nello scriptorium, comunque avevano vicino l’orto. L’orto dei semplici, con le erbe officinali, le erbe per la cucina e quelle ornamentali. Anche noi siamo abituate a mangiare del frutto del nostro lavoro, per cui un orto era necessario. L’osservazione delle pianete conservate nella Pinacoteca qui a fianco e l’arrivo di una novizia proveniente da una famiglia di vivaisti, lei stessa dottoressa in agraria, ci hanno indotto a creare l’orto. Le pianete infatti erano una trasposizione dell’hortus conclusus: dove infila la testa il sacerdote, è il luogo del pozzo (il pozzo della sapienza, dove si interpreta la parola di Dio). Gli stoloni sono i viali, gli ornamenti floreali sono i parterre, dove c’erano frutti, fiori, piante odorose. Non c’era niente di più bello che creare una continuità tra il convento e il Museo, dove sono conservati oggetti che dovrebbero stare in sacrestia e che per ragioni di sicurezza stanno in un Museo. Allora, con suor Erica abbiamo ideato e realizzato questo giardino (tutto da noi) come c’è sempre stato nei monasteri, dove i viali sono i bracci della Croce, l’acqua è la parola di Dio e la sapienza di chi vi attinge, e poi ci sono le piante da frutto e gli ortaggi”.
Suor Gloria sorride con soddisfazione: “Tutto quello che coltiviamo, poi diventa marmellate, salse e perfino liquore. Il liquorino delle suore. Stiamo realizzando un laboratorio nel convento di Pietrarubbia e stiamo facendo tutti i passaggi burocratici per l’autorizzazione alla vendita. Nel frattempo, i nostri prodotti sono esposti qui, davanti all’ingresso della chiesa di san Francesco, in offerta. Tutti li possono prendere e non sappiamo neanche se vengono pagati”.
Attività e progetti che, in qualche modo, sono la moderna evoluzione del concetto benedettino “ora et labora”, il legame che le Adoratrici hanno sia con i Francescani, sia con l’esperienza benedettina. “Abbiamo adottato la regola agostiniana – spiega la Madre Superiora – perché Sant’Agostino dice: siamo un corpo solo e un’anima sola protesi verso Dio. La regola agostiniana punta molto sull’amicizia, la comunione, la solidarietà con le persone. Anche la liturgia conta tantissimo: noi l’abbiamo curata notevolmente. In questo senso i benedettini ci hanno insegnato molto”.
L’antica regola monastica che unisce il lavoro quotidiano alla preghiera è tuttora la metrica che scandisce la giornata delle suore. “L’esperienza monastica è consacrare il tempo a Dio. Ora et labora vuol dire che tutto il tempo è diviso tra preghiera e lavoro. Il lavoro si colma della preghiera e la preghiera innerva il lavoro. In questo modo, tutto il tempo è sotto lo sguardo di Dio. Il tempo va santificato. Un concetto che era nato già all’interno del giudaismo, cioè tutte le ore del giorno conoscono una santificazione data dalle preghiere, principalmente le preghiere dei salmi. Quindi, le Lodi sono l’inizio del giorno; l’ora terza corrisponde alle 9 del mattino, quando si inizia il lavoro; l’ora sesta e quella del mezzogiorno, quando c’è la pausa per il pranzo; l’ora nona finisce la pausa e ricomincia l’ora del lavoro; il vespro è la fine della giornata lavorativa; l’ufficio delle letture, un tempo diviso in vigilie, segnava la preghiera notturna”.
Ancora in vigore l’istituto del capitolo (assemblea dei membri di un ordine), per eleggere la Madre Superiora, la Maestra, per accettare le novizie che arrivano, per definire alcuni cambiamenti e altre cose che comportano la vita monastica. Attualizzazione nella modernità, di una tradizione antica come il monachesimo.
“Adesso il nostro scriptorium è internet – spiega suor Gloria – e la clausura è diventata «costituzionale» cioè dipendente dalle costituzioni dei rispettivi ordini e dal Vescovo, significa che abbiamo delle possibilità di contatto esterno che la clausura papale non permette. Non è che usciamo a fare un giro. Certamente possiamo uscire per fare degli incontri, o delle conferenze”.
Sembra quasi un ossimoro, eppure il monachesimo medievale ha gettato le radici della società moderna, la quale però sembra improntata a ben altri valori, che svuotano le chiese e fanno diminuire le vocazioni. Quale futuro avrà?
“Siamo di fronte ad un anno che ci apre al Giubileo, al quale per altro ho collaborato con alcuni testi. Il futuro è la speranza. Per la Chiesa è sempre la speranza. I tempi sono difficili. Tutte le persone hanno, o hanno avuto difficoltà. Anche noi abbiamo avuto tante difficoltà. Ma non si può perdere la speranza. Chi riesce ad essere speranzoso? Chi è ancorato al passato, ma senza un sentimento nostalgico. Il passato, la tradizione, sono indispensabili per elaborare il presente ed essere aperti al futuro”.
“Come facciamo noi ad esempio ad essere fedeli all’esperienza monastica ed essere persone di oggi? Con questo sistema: conosciamo la tradizione, non per fare le stesse cose che facevano gli antichi, che oggi sarebbero improponibili, ma per rielaborarla nel presente, per fare una sorta di ponte che ha oltre duemila anni di storia, direi quattro mila considerando anche l’ebraismo, che noi dobbiamo comunicare con il linguaggio di oggi”.
Angela Venturini